Le relazioni in ambito lavorativo sono spesso un fuoco incrociato. Il rapporto con il superiore, il capoufficio, gli screzi con il collega, la farraginosità della burocrazia, le statistiche di produttività, la sfiducia degli utenti, rappresentano le trame di una complessità che è oggettivamente difficile da gestire. E a volte mancano le competenze.
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Le dinamiche relazionali sul lavoro e la gestione dei conflitti
Queste, da anni, con impegno ed efficacia, cerchiamo di far recuperare colmando il vuoto curriculare che tutti ci accompagna.
“C’è molto da demolire, molto da costruire,
(molto da restaurare;)
Il lavoro non abbia indugio,
non si sprechi né tempo né braccio,
Si scavi l’argilla dal fosso,
la sega tagli la pietra,
Il fuoco non sia spento nella fucina”
(T.Eliot)
Nessuno ci ha formato alla gestione delle relazioni interpersonali, ne conseguono miriadi di conflitti più o meno grandi. Crediamo che possano diventare solo contenziosi, cioè possano solo degenerare in liti giudiziarie. Invece c’è un modo per risolverli da soli e in modo assolutamente soddisfacente. Quello chiamato mediazione dei conflitti, che stiamo diffondendo.
Proponiamo per questo un percorso di formazione alla creazione di relazioni costruttive e lo sviluppo di capacità per gestire e trovare soluzioni ai conflitti, che comunque accadono.
La fatica quotidiana e l’alternativa della mediazione dei conflitti
Lo riteniamo vitale e utile. Infatti, sembra non esserci scampo: i conflitti sono una presenza frequente nella nostra vita. Dalla quotidianità, poi, sembra uscire una serie di micro e macro conflittualità che, forse, a fine giornata, sembrano un campo di battaglia. L’ira funesta non risparmia nessuno, neanche quelli che sembrano più pacifici e accomodanti, almeno in apparenza. Che fare?
Scegliere di soccombere e farci del male? Pena il trascinarsi in una miseranda e affannosa sopravvivenza interrotta da sprazzi di ben-essere, o meglio di illusioni euforiche?
O decidere di lottare incontrando ostacoli senza fine e perdere la pace? Sprecando energie che meglio dovremmo investire per la nostra completa realizzazione e per il successo a cui tendiamo?
Il digitale e l’impoverimento delle relazioni autentiche
In questo scenario complesso, un ulteriore fattore ha aggravato le difficoltà: il crescente ricorso al digitale. Strumento potente e prezioso, ma anche ambivalente, che ha sì reso possibili nuove modalità di interazione, ma ha ridotto quel benefico esercizio quotidiano delle buone relazioni, che un tempo scaturiva spontaneamente nella fisicità delle interazioni dirette, continue, naturali.
Oggi, troppo spesso, ci si ritrova in relazioni esclusivamente virtuali. Disincarnate. Un’interazione fatta di click, messaggi asincroni, icone di reazione. Così facendo, si perde gradualmente la capacità, e il coraggio, di abitare pienamente il rapporto con l’altro. E questo, nel tempo, ci rende più fragili, più impreparati alla gestione dei contrasti. Più incompetenti nella relazione, nonostante la connessione.
La centralità delle competenze relazionali secondo l’OCSE
Come ha evidenziato l’OCSE nel report “Skills Outlook 2023” dedicato alla trasformazione digitale e al lavoro, mentre le competenze tecniche si aggiornano rapidamente, le cosiddette life skills, tra cui la gestione dei conflitti e l’intelligenza emotiva, tendono a restare indietro se non adeguatamente coltivate.
La mediazione è quindi oggi, più che mai, l’antidoto: attiva la comunicazione, la riporta su un piano di autenticità, la veicola anche a livelli profondi, dove tutte le dimensioni dell’essere, compreso il corpo, possono tornare a interagire. La mediazione restituisce alla relazione quella qualità esperienziale che lo scambio digitale tende a impoverire, riportando al centro non solo il contenuto ma la presenza reciproca.
La mediazione come strumento di trasformazione del conflitto
Anche i migliori propositi non bastano. Non sono sufficienti al raggiungimento di un accordo, spesso intimamente insoddisfacente perché pervaso dal gusto amaro del compromesso, della rinuncia. Fra i due litiganti, uno vince e l’altro perde e spesso quest’ultimo vuole la rivincita, oppure, secondo la saggezza dei detti popolari, tra i due litiganti il terzo gode, ma di cosa? Forse è il caso di dire che il terzo “media” più che godere di uno scontro in cui, alla fine, ci sarà comunque una vittima.
Il senso vero della mediazione dei conflitti, un sistema di pensiero ed una metodologia innovativa, sta nel vedere il conflitto come qualcosa di connaturato alla natura umana, ma anche come lo strato più superficiale di qualcos’altro da scoprire, in questo senso il conflitto è davvero una risorsa, una “grande occasione” di conoscenza.
Mobbing e dinamiche distruttive nei luoghi di lavoro
Credo sia un bisogno a cui nessuno sfugge. Infatti, ciò che tutti, più di tutto, cerchiamo è di dare un senso e una qualità alle nostre vicende personali e professionali.
Il lavoro dovrebbe essere il luogo della nostra realizzazione, del nostro benessere e del successo. Eppure la nostra vita si scontra con lotte sanguinose ma non necessarie. Pensiamo ad un fenomeno molto antico, seppure solo di recente oggetto di significative ricerche: il mobbing, ovvero le violenze nei posti di lavoro. Quanto accade è stato definito con un termine mutuato dall’etologia, che sta ad indicare il comportamento aggressivo attuato da alcune specie di uccelli nei confronti dei contendenti intenzionati ad invadere il loro nido. Questi vengono accerchiati, spaventati, feriti, respinti. Nel mondo degli uomini, nell’ambito lavorativo, il collega può venire isolato, sabotato, deriso, sminuito, reso inutile.
Di conseguenza il “prescelto”, il capro espiatorio, comincia a provare disagio, a mettere in discussione il suo valore, a sentirsi insicuro, ad avere ansia, depressione o aggressività, spesso somatizzate. Può anche “perdere le staffe”, cosicché la situazione scappa di mano e non si sa più chi sia la vittima e chi il carnefice. È guerra totale. Di norma i rapporti si deteriorano e l’illusione che col tempo ogni cosa si risolverà, visione lassista di chi di fatto si sente inerme, può lasciare il posto all’evidenza del conflitto radicalizzato. Ai momenti di lotta aperta si alternano quelli di ostilità meno apparenti, ma subdoli e striscianti, ugualmente gravi.
La paura del cambiamento e la difesa del proprio ruolo
Eppure, a volte, paradossalmente, l’origine del conflitto è un’espressione di vita, di voglia di esserci e di fare, e ciò origina l’alzata di scudi da parte di chi in fondo paventa di venire messo in scacco dalle iniziative dell’altro. Tanto più queste gli appaiono valide, quanto più le vive come temibili e quindi da far morire al loro nascere.
Il nuovo paradigma di pensiero, quello della nuova linea culturale chiamata mediazione dei conflitti, viene in aiuto e porta un cambio di mentalità radicale.
Invece nella prassi la domanda: “Perché spegnere la mia candela per far brillare meglio la tua?” resta malauguratamente senza risposta, come se mai si fosse fatta esperienza di quanta “luce”, a vantaggio di tutti, ci possa essere se più candele trovano il diritto e il posto per “splendere”.
Si rifletta sul minuetto danzato con grande eleganza, sugli “affondi” degni della migliore scherma, in alcuni momenti dell’attività interna all’ufficio di appartenenza; celano strategie di competizione fra “bravi”, coalizioni attorno a un’idea che giustifica la contrapposizione. Le quali traggono ancora humus da una falsa idea di gruppo, in cui chi fa da leader, mentre si adopera per il consolidamento di tale suo ruolo, utilizza a questo scopo soggetti dalla personalità non emergente con l’omaggio di un’indotta importanza.
Lusinghe e prevedibili misconoscimenti aprono e chiudono la danza del gruppo, meglio, della “società per azioni”. Dove tutti in realtà sono uniti non tanto “per”, ma “contro” : il motivo per cui si attiva il massimo delle proprie energie non è il valore formativo del progetto, né tanto meno la centralità degli obiettivi del servizio offerto, ma la difesa del proprio “territorio”, del proprio successo.
Mancando la competenza relazionale, ignari della ricchezza insita in quella collaborazione che permetta di trarre il miglior frutto proprio dalla diversità, l’altro non può che essere un corollario dell’Io. Si perde del tutto la possibilità che “uno più uno non faccia due, ma tre”.
La mediazione umanistico-filosofica come percorso di crescita
La Mediazione umanistico-filosofica, che da anni ho scoperto e fatto conoscere, appellandosi all’intelligenza emotiva, rende possibile la sfida di una vita di relazione con l’altro in cui l’io e il tu attuano un felice scambio basato sulla diversità.
Centro focale è la figura del mediatore, che permette ad entrambe le parti di concludere il conflitto ottenendo ciascuna piena soddisfazione; ciascuna risulta vincitrice, superando l’apparente paradossalità di questa condizione attraverso l’indicibile che avviene nella seduta di mediazione.
La mediazione trasforma i limiti, le difficoltà in risorse per raggiungere equilibrio e benessere: un viaggio in profondità alla ricerca dell’orizzonte di senso in cui si è immersi, per tenere vivo il pensiero critico e non ignorare le istanze del proprio sé. Porta a chiedersi non soltanto il come delle cose, ma anche il perché, in un’ottica che vede l’educarsi a diventare adulti, in senso pieno e non solo anagrafico, come il compito principale della vita.
Mediazione e apprendimento continuo: un viaggio necessario
Certamente la Mediazione umanistico-filosofica reclama la rottura degli schemi vecchi, dell’ovvio, impone di mettere in discussione seriamente convinzioni con cui si credeva di aver fatto i conti una volte per tutte, di dover andare al di là del già noto.
Apprenderla e metterla in atto, in ogni occasione, sia professionale che personale è una svolta, una opportunità, perché oltre che aiutarci a risolvere i conflitti con piena vittoria ci offre anche altro.
Ci fa sperimentare concretamente come la relazione con l’altra persona rappresenti il frutto sapiente, e non spontaneo, di una preparazione che segue “regole” e che richiede, quindi, “strategie” di azione, e come attraverso l’apprendimento di tali “strategie” sia possibile costruire rapporti migliori con gli altri, nell’ottica di una gestione costruttiva del conflitto. L’obiettivo al quale tendere è l’affinamento della nostra intelligenza emotiva, quella che ci aiuta a scegliere la via delle Mediazione per la risoluzione pacifica del conflitto, l’intelligenza che è in grado di trasformare il dolore del conflitto in opportunità per migliorare la qualità della propria e altrui vita.
Non si tratta di una linea aristocratica o troppo astratta, bensì una possibilità di percorso di apprendimento accessibile a tutti.
È una formazione di “alto livello”, perché agisce nel profondo tramite modalità semplici ma non per questo banali.
Una guida da apprendere in contesti formativi in presenza, da seguire con disciplina e una via, anche divertente e intrigante, da percorrere con costanza.
Occorre solo volerla con determinazione e va sperimentata nella vita, quotidianità compresa. È un viaggio che non finisce mai perché s’incrocia con il senso della nostra stessa esistenza. Forse vi sembra troppo? Non lo è se pensiamo quanto bisogno abbiamo, tutti, di relazione e quanto ne siamo realmente capaci, quanto ne accettiamo i rischi reclamandone solo i diritti. E soprattutto pensiamo a quanto male fa un conflitto non riconosciuto o non risolto. Forse vale la pena provare vie nuove.
La mediazione come chiave per una nuova cultura della relazione
Lasciamo quindi aperta la porta alla ‘meraviglia’ di scoprire che si può ed è per tutti e la Mediazione filosofico-umanistica sarà la chiave per il ben-essere di domani. Ed intanto suggeriamo di iniziare con qualche lettura[1].
[1] Maria Martello, Costruire relazioni intelligenti, Milano 2021 e Una giustizia alta e altra, Milano 2023