Nel panorama dei media digitali, il concetto di comunicazione ha subito trasformazioni radicali che vanno ben oltre le previsioni di Marshall McLuhan, uno dei teorici più influenti del secolo scorso. McLuhan aveva profetizzato che la natura stessa dei media avrebbe avuto effetti decisivi sulla cultura, sulla politica e sul modo in cui gli individui si relazionano tra loro.
In particolare, McLuhan affermava che il mezzo attraverso cui si diffondono i contenuti è molto più importante del contenuto stesso, poiché ogni media modifica la percezione della realtà e la struttura sociale. Oggi, nell’era dell’informazione digitale, assistiamo a un cambiamento radicale: il passaggio dalla centralità dei grandi media tradizionali alla disintermediazione, ossia alla possibilità che chiunque diventi produttore e diffusore di contenuti con la nascita dei prosumer. Con il fenomeno del broadcast yourself, l’utente diventa il medium stesso, ridisegnando le traiettorie di potere e di identità nell’era dei social media.
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Il pensiero di Marshall McLuhan: “Il medium è il messaggio”
Nel 1964, McLuhan formulò la sua celebre teoria del “medium is the message”, che suggeriva come il mezzo di comunicazione in sé fosse il vero agente di cambiamento, molto più del contenuto veicolato. McLuhan notò che la forma del mezzo di comunicazione influisce profondamente sulla percezione del mondo e sulla struttura sociale. Ad esempio, la stampa, con il suo carattere lineare e individualista, ha incentivato una società fondata sulla separazione e sulla razionalità. Al contrario, la televisione, con la sua immediatezza e la capacità di trasmettere simultaneamente immagini e suoni, ha promosso una società collettivista, ma anche più passiva e soggetta a influenze esterne. McLuhan utilizzò la metafora del “villaggio globale” per descrivere come i nuovi media, in particolare i media elettronici, neutralizzassero le distanze fisiche e temporali, creando una rete di interconnessioni che mutavano il concetto di spazio e tempo nella comunicazione (McLuhan 1964). Tuttavia, lo studioso canadese non poté prevedere l’ulteriore evoluzione che i media digitali avrebbero avuto nel XXI secolo.
La sua analisi si pose come prodromica rispetto all’avvento di internet, eppure, come vedremo, le sue intuizioni sulla centralità dei media e sul potere della loro forma sono tuttora di straordinaria rilevanza. Secondo McLuhan, ogni medium ha un proprio “programma” implicito che influenza la cultura umana.
Ad esempio, il libro, sebbene veicoli un contenuto specifico, favorisce un tipo di apprendimento lineare e profondo, mentre i media audiovisivi tendono a promuovere una percezione più immediata e sensoriale. La sua visione suggeriva che, con l’evoluzione della tecnologia, sarebbero emersi nuovi modi di interazione sociale e culturale, pur non potendo immaginare come l’utente sarebbe diventato un elemento attivo nella produzione e nella distribuzione dei contenuti mediatici, trasformando in modo profondo il significato stesso di comunicazione (McLuhan 1964).
L’avvento di Internet e la disintermediazione
Con l’avvento di Internet e, successivamente, dei social media, si è assistito a un processo di disintermediazione che ha radicalmente cambiato il panorama mediatico. Quest’ultima si riferisce alla rimozione degli intermediari tradizionali, operatori di comunicazione, giornalisti, editori, case di produzione, nel processo di produzione e distribuzione dei contenuti. Internet ha democratizzato la comunicazione, consentendo a chiunque di pubblicare contenuti e di raggiungere una vasta audience senza passare per i canali mediatici tradizionali. La disintermediazione è diventata visibile soprattutto con l’esplosione di piattaforme social e aggregatori di contenuti come Facebook, X, instagram, Youtube, Blip dove chiunque ha la possibilità di creare, condividere e diffondere informazioni in modo immediato (Castells 1996).
La sociologia dei media, con studiosi come Manuel Castells, ha sottolineato come Internet abbia creato una “società della rete”, in cui le comunicazioni sono decentralizzate, ma sono distribuite in modo reticolare e orizzontale. Egli ha notato che in questa società, i cittadini diventano partecipanti attivi e produttori di contenuti, creando nuove forme di interazione sociale che sono più fluide rispetto ai modelli precedenti. Internet non solo ha reso possibile la disintermediazione, ma ha anche accelerato la creazione di nuove forme di potere, in cui l’informazione può essere “autoprodotta” e diffusa da chiunque, senza la necessità di un’autorità centrale (Castells 1996).
Tuttavia, la disintermediazione non ha solo effetti positivi. Il rapido flusso di informazioni e la mancanza di un filtro editoriale hanno anche creato problematiche come la diffusione di fake news, la polarizzazione dell’opinione pubblica e l’erosione della qualità giornalistica. Come sottolineato da Eli Pariser, il fenomeno delle “filter bubbles” (bolle di filtraggio) ha portato alla creazione di ecosistemi informativi separati, dove le persone sono esposte principalmente a contenuti che confermano le loro opinioni preesistenti rassicurandole e contestualizzandole in una dimensione di stabilità cognitiva (Pariser 2011).
Broadcast yourself: l’ascesa dell’utente come medium
L’idea di “broadcast yourself” promossa da piattaforme come YouTube e Instagram ha ridisegnato il concetto stesso di comunicazione. Nel contesto dei media tradizionali, il pubblico si palesava come passivo e limitato a consumare contenuti creati da pochi produttori. Con l’avvento dei social media, questo paradigma è stato ribaltato: l’utente diventa esso stesso produttore e diffusore di contenuti. In effetti, ogni persona con un account su YouTube, Facebook o Twitter è un potenziale broadcaster, con la capacità di raggiungere un pubblico globale assurgendo al ruolo di prosumer.
Questa trasformazione ha radicalmente cambiato le dinamiche sociali e culturali. Da un lato, ha offerto a milioni di persone la possibilità di esprimersi pubblicamente, permettendo l’emergere di nuove voci e identità. Dall’altro, ha creato nuove sfide in termini di gestione dell’identità e della reputazione online. L’identità dell’individuo è sempre più costruita e negoziata attraverso i social media, dove ogni post, foto o video può essere interpretato in modi diversi da persone in tutto il mondo attualizzando diverse modalità di rappresentazione socio-digitale (Boyd 2014).
L’utente non è più solo il ricevente di un messaggio, ma parte integrante del processo di produzione, distribuzione, consumo e costruzione semantica del messaggio stesso. Secondo la teoria della “società della rete” di Castells, questo fenomeno segna un passaggio, come spiegato, dalla centralizzazione alla decentralizzazione del potere mediatico, e riflette una nuova visione della politica e delle dinamiche sociali. L’emergere di piattaforme come Twitch, TikTok e Patreon, in cui gli utenti possono non solo creare contenuti, ma anche monetizzarli, ha contribuito a questa evoluzione, rendendo l’autoproduzione di contenuti una vera e propria forma di realizzazione professionale (Castells 1996).
Le implicazioni sociologiche dell’autocensura e della creazione di identità online
Se da un lato l’emancipazione della voce dell’utente ha portato a una maggiore diversità di opinioni e di rappresentazioni, a un pluralismo agognato, anche se troppe volte disatteso, dall’altro ha generato una pressione sociale senza precedenti. L’utente moderno è iperstimolato a un livello informativo, continuamente sotto il controllo di algoritmi che ne determinano visibilità e successo. Ogni azione sui social media, un like, un commento, una condivisione, diventa parte integrante di una performance pubblica.
Sherry Turkle, nel suo libro Alone Together (2011), ha esplorato come l’interazione digitale abbia cambiato le nostre relazioni interpersonali, portando a una dimensione solipsistica che può definirsi come una “solitudine in compagnia“. La connessione continua con gli altri tramite dispositivi digitali non ha necessariamente portato a una maggiore vicinanza emotiva, ma piuttosto a una nuova forma di solitudine, caratterizzata dalla superficialità delle interazioni online. L’autocensura diventa così una strategia difensiva per proteggere la propria immagine in un contesto pubblico altamente visibile e critico (Turkle 2011).
Zeynep Tufekci ha analizzato il ruolo dei social media nelle mobilitazioni politiche e sociali, sottolineando come la possibilità di pubblicare liberamente contenuti abbia democratizzato la partecipazione politica, ma anche come questa stessa libertà abbia portato a nuove forme di controllo sociale e manipolazione, come dimostrato nel caso delle elezioni politiche influenzate da campagne di disinformazione (Tufekci 2017).
Conclusioni: il medium è l’utente
Nel passaggio dalla comunicazione centralizzata e verticale dei media tradizionali alla decentralizzazione, il concetto di medium è stato radicalmente trasformato. L’utente non è più solo un destinatario passivo, ma diventa un attore attivo che produce, condivide e distribuisce contenuti secondo dinamiche multitiming e multiplacing assurgendo al ruolo di prosumer. Il medium, oggi, è l’utente stesso, che attraverso le piattaforme digitali può esercitare potere, influenzare opinioni e costruire la propria identità. Questa evoluzione ha profonde implicazioni sociologiche: se da un lato la disintermediazione ha favorito l’accesso a una maggiore pluralismo di voci e di opinioni, dall’altro ha reso più difficile discriminare tra verità e disinformazione producendo, a volte, derive di post-verità. L’individuo, come nuovo medium, si trova a confrontarsi con le sfide della visibilità, dell’autocensura e della gestione della propria rappresentazione in un contesto di costante esposizione. Le dinamiche di potere si sono evolute, ma la domanda rimane: chi controlla veramente l’informazione e la sua distribuzione? Cambiano le tecnologie ma il quesito resta inevaso.
Bibliografia
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