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Garlasco, basta “true crime”: così i social banalizzano il male



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Analizziamo da una prospettiva criminologica, giornalistica e giuridica perché il true crime è infotainment e non informazione, gli impatti sociali e gli aspetti legali. Il caso di Garlasco fa scuola. Raccontare di sangue, procure e tribunali senza un inquadramento deontologico e il rispetto della legge, ha un impatto negativo sui diritti e le libertà dei…

Pubblicato il 23 mag 2025

Nicoletta Pisanu

Giornalista professionista, redazione AgendaDigitale.eu



true crime
Crime Scene at Night: Crime Scene Investigation Team Working on a Murder. Female Police Officer Briefing Detective on the Victim's Body. Forensics and Paramedics Working. Cinematic Shot

Il paradosso del cronista che frequenta le aule di tribunale è che proprio lì, nel luogo dove si giudica, dovrebbe imparare a non dare giudizi. Se l’arena dei social network e del dibattito online si concede la libertà di issare sul patibolo i personaggi coinvolti in un’inchiesta, le colonne dei quotidiani devono resistere alla tentazione di farlo.

La complessità di ogni vicenda processuale va rappresentata tenendo sempre presenti tre valori che la Cassazione, nella sentenza 6902 del 2012, ha inciso nella pietra come limiti della libertà di cronaca: verità, continenza, pertinenza.

Il true crime non ha preso questi voti. E i contenuti diffusi su ogni piattaforma da parte di privati sulla nuova indagine sul giallo di Garlasco offrono l’occasione per riflettere su come questo format impatti sui diritti e la libertà dei coinvolti nelle inchieste. A volte sacrificando l’etica sull’altare dei follower, altre violando la legge.

Che cos’è il true crime e perché è un trend

Il true crime è la narrazione di reali casi di cronaca nera e giudiziaria svolta con uno stile comunicativo orientato a intrattenere il pubblico. Ha avuto origine nell’Inghilterra del XVI secolo, quando si stampavano libriccini di poche pagine che raccontavano di crimini efferati per catturare l’attenzione del pubblico. “Efferati” non a caso: più il caso è nero, più la gente è coinvolta.

Non è un’opinione: i sociologi, in particolare chi si occupa di devianza, si sono a lungo, e con dibattiti accesi, occupati del rapporto tra media e crimine, cercando di capire quale sia la rappresentazione che i mezzi di comunicazione fanno del crimine, gli impatti sociali di diverse modalità di narrazione, la costruzione sociale del crimine così come mostrata dai media.

La narrazione del crimine, della devianza, affascinano e interessano perché offrono la possibilità di sperimentare la paura stando al sicuro, di osservare dal proprio divano i lati più bui dell’umano senza farsi male. Risulta evidente come sia necessaria la consapevolezza di avere responsabilità sociale nel gestire una narrazione che punta all’attivazione cognitiva ma può incidere anche sull’emotività in modo profondo e forte.

Il problema nasce quando l’obiettivo diventa intrattenere, non informare, e quindi si punta proprio all’emotività: “Il true crime ha raggiunto il mainstream grazie soprattutto a tre principali trasformazioni tecnosociali e culturali degli ultimi anni – racconta Arije Antinori, docente di Criminologia all’Università La Sapienza di Roma -. La prima è il platforming, in cui i podcast, in particolare, YouTube e servizi on-demand hanno abbattuto i costi di produzione e dato visibilità a voci prive di redazione. Secondo i dati dello scorso anno, quasi un italiano su tre ascolta podcast e, tra questi, un terzo preferisce storie criminali, quota in crescita rispetto all’anno precedente”. Il secondo driver “è l’economia dell’attenzione, infatti, un delitto reale produce suspense a costo zero, facilmente serializzabile in episodi che trattengono lo spettatore per ore, puntata dopo puntata, gratificando la propulsione algoritmica”.

Ultima e non meno importante “è una sorta di pedagogia del rischio, secondo cui le audience consumano queste narrazioni per imparare strategie di autodifesa e per condividere l’elaborazione emotiva all’interno di micro-community ove si ridefiniscono le paure contemporanee, dal femminicidio al terrorismo, e si forgiano identità non più collettive, ma connettive, quindi costantemente collegate tra di loro”, conclude il professore.

Differenza tra true crime e cronaca nera e giudiziaria

Va precisato che la cronaca nera e la cronaca giudiziaria sono quei settori del giornalismo che si occupano, rispettivamente, di trattare la prima i crimini dal momento in cui vengono commessi, la seconda dal momento in cui si esce dalla fase delle indagini e si inizia l’iter processuale. A differenza del true crime, la cronaca ha l’obiettivo di informare e non di intrattenere. L'”intrattenimento” del pubblico viene da sé, perché la vicenda stessa in quanto notiziabile e dunque di interesse pubblico insieme all’attendibilità del giornalista e del media ufficiale utilizzato spingono a leggere o guardare articoli e servizi al riguardo.

Perché il true crime è infotainment e non informazione

Puntare invece a intrattenere come obiettivo primario veicolando il racconto di un crimine attraverso una narrazione che susciti emozioni forti, ha risvolti sociali rischiosi, che vanno dalla disinformazione allo sciacallaggio. Da questo punto di vista, internet e le piattaforme digitali hanno offerto un buffet libero cui accostarsi e riempirsi il piatto di storie per la mancanza di una reale forma di governance o di fact checking.

Quando infatti il caso di cronaca nera “migra nell’infotainment, muta radicalmente forma, diviene on demand – spiega Antinori -. La cronaca giudiziaria tradizionale è vincolata al ritmo del “rito” processuale, mentre il true crime lo (ri-) confeziona come serie, attraverso atti e archetipi fondamentali per lo storytelling, come il mostro, l’investigatore eroe, la vittima innocente, avvolti in un accurato contenitore sonoro e scenografico”. L’impatto sul pubblico punta alle emozioni: “Ne risulta uno slittamento dal consumo cognitivo a un consumo di tipo emotivo, anzi sempre più emotivizzato, fondante su paura, ansia, indignazione e catarsi. Da qui scaturiscono rischi sistematici: la presunzione d’innocenza vacilla sotto narrazioni colpevoliste. Il clima mediatico può condizionare, se non contaminare, il libero convincimento del giudice”.

Infatti, aggiunge Antinori, “spesso foto, video e atti d’indagine circolano decontestualizzati, violando la privacy di indagati e vittime; i familiari vengono spettacolarizzati e divengono oggetto di vittimizzazione secondaria. Infine, all’interno delle piattaforme social gli algoritmi favoriscono piste complottiste, erodendo il pluralismo informativo. A complicare tale scenario, si possono trovare internet-/web-sleuths, cittadini che, riuniti in micro-community, producono mappe, podcast e dirette, moltiplicando il rischio di ipotesi infondate e disinformazione in generale“.

Cronaca giudiziaria nel Codice deontologico dell’Ordine dei giornalisti

A diferenza del true crime, l’intrattenimento dunque non è il principale obiettivo della cronaca nera o giudiziaria e ciò si rispecchia, ad esempio, nel linguaggio utilizzato, che non deve mai essere sopra le righe ed è regolato da precise norme deontologiche. Non a caso quindi il nuovo Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti, ufficialmente in vigore dal primo giugno 2025 a sostituzione del precedente Testo unico, dedica all’articolo 24 ampio spazio alla cronaca giudiziaria. L’articolo 25 inoltre è dedicato alla “Tutela dell’identità delle vittime, dei condannati e dei congiunti”.

L’articolo 24, riassumendo, stabilisce:

  • il rispetto della presunzione di non colpevolezza, in accordo alla Legge Cartabia e all’ordinamento giuridico stesso del nostro Paese, garantista;
  • la necessità di dare tempestiva informazione in caso di assoluzione e proscioglimento dell’imputato, non solo delle condanne;
  • la cautela nella diffusione di nomi e immagini di coinvolti in reati minori;
  • indicare con chiarezza le differenze nei termini della legge: ad esempio indagato e imputato sono diversi e hanno un significato giuridico ben differente (l’indagato è la persona sottoposta a indagini, l’imputato è a processo), per cui definire imputato un semplice indagato non solo è errato ma può risultare lesivo;
  • dare lo stesso spazio a tutte le parti coinvolte nelle inchieste.

L’articolo 25 ha un’importanza fondamentale anche dal punto di vista della data protection, in ottemperanza del Gdpr e delle norme sulla privacy. Si stabilisce, ad esempio, la necessità di garantire l’anonimato alle vittime di violenza e di evitare di dare dettagli che possano portare alla loro identificazione. Oppure, di valorizzare il percorso di reinserimento sociale del condannato.

Un punto di particolare interesse è, citando testualmente, quello relativo a non pubblicare “i nomi dei congiunti di persone coinvolte in casi di cronaca e non diffonde altri elementi che ne rendano possibile l’identificazione, a meno che ciò sia indispensabile alla comprensione dei fatti, e comunque non li rende mai noti nel caso in cui si metta a rischio la loro incolumità” così come “nel riportare il contenuto di qualunque atto processuale o d’indagine, di citare persone il cui ruolo non sia essenziale per la comprensione dei fatti“.

Assenza di vincoli deontologici nel true crime

Se quanto appena citato per il giornalista è legge e violare tali regole comporta sanzioni, per i content creator che parlano di crimini e inchieste questo non vale. e ciò inevitabilmente si traduce in meno tutele per i coinvolti. Come spiega il professor Antinori, “il giornalista professionista risponde a un codice etico e a un direttore responsabile, mentre il content creator, no. L’assenza di vincoli favorisce pratiche di leak-baiting, ossia la pubblicazione di atti parziali e/o grezzi o audio non verificati per accrescere suspense e visibilità. La complessità procedurale e i tempi lenti del processo penale vengono compressi in dirette social di poche ore e l’in dubio pro reo cede il passo alla certezza immediata, con scarsa rappresentanza della difesa, degli esperti indipendenti e, spesso, dei minori coinvolti”.

Una questione, banalmente, di business. Infatti il motivo è intrattenere a ogni costo, “poiché la remunerazione deriva da click, sponsorship e crowdfunding, la drammatizzazione attraverso lo storytelling diventa strategia economica. Il risultato è un’esposizione potenziale del pubblico a narrazioni parziali e/o diffamatorie e dei protagonisti a doxxing, stigma e veri e propri processi paralleli”, aggiunge Antinori. Ci sono anche però possibili derive positive, sottolinea il docente: “Di contro, le community possono anche trasformarsi in spazi di cittadinanza attiva, capaci di illuminare le zone d’ombra del sistema giudiziario, purché non prevalga la logica dello spettacolo“.

True crime e rischio di banalizzazione del crimine

La cronaca giudiziaria fatta bene è considerata difficile dalla maggior parte dei giornalisti e, infatti, nelle redazioni i giudiziaristi non abbondano: bisogna studiare, conoscere le fasi del processo e il linguaggio della legge, i ruoli e i riti e poi saper raccontare con chiarezza in modo che tutti capiscano argomenti che sulla carta sono invece complicatissimi, si rischiano facilmente errori e possibili conseguenze legali. Nello scrivere di giudiziaria bisogna rendere facilmente comprensibile l’argomento ma ciò non significa semplificare, anzi la cronaca giudiziaria deve saper rappresentare la complessità di una vicenda giudiziaria. Qualcosa che si ottiene domandando alle fonti ufficiali, istituzionali o personali che siano, oppure leggendo le carte.

Il true crime invece spesso appiattisce questi aspetti: “Sui social, il crimine viene deformato attraverso un “effetto Cluedo”, così l’attenzione si concentra sulla banalizzazione ludico-lineare del “chi ha ucciso, con quale arma e dove”, non sulla robustezza delle prove agli atti. Si assiste, quindi, a distorsioni interpretative in cui, ad esempio, avvalersi della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio diviene l’intento di celare la propria colpevolezza, mentre si tratta dell’esercizio del diritto al silenzio. Per non parlare della confusione tra imputato e indagato”, sottolinea Antinori.

True crime, cronaca giudiziaria e responsabilità sociale

Di fatto una vera e propria strategia di gamification, che produce “storie lineari e serializzabili, dove gli elementi più scenografici, magari irrilevanti negli atti al fascicolo, vengono sovra rappresentati per ragioni di spettacolo. Ne deriva una sovrastima dei reati violenti e l’illusione che basti l’“indizio decisivo”, versione digitale del vecchio “effetto CSI”. La complessità giudiziaria si dissolve nella “soluzione del giallo”, regalando al pubblico un senso di controllo ma alimentando morbosità e persino fenomeni di turismo massivo sui luoghi del delitto, come accaduto a Cogne o ad Avetrana”, sottolinea Antinori.

Invece, “in un racconto responsabile, al contrario, il giornalista dovrebbe esplicitare l’incertezza, dare voce a tutte le parti, sottolineare i tempi procedurali e ricordare che lo spazio e il tempo della prova è solo e soltanto l’aula giudiziaria”, precisa il professore.

True crime e privacy, cosa si rischia

Al di là degli impatti sociali, a parlar di vicende giudiziarie con superficialità si rischia anche sul piano legale. Per esempio, di violare le norme su privacy e data protection: “Il rischio di violare il GDPR c’è in ogni ipotesi in cui si espongano soggetti deboli con immagini sensibili non necessarie e con una sovraesposizione eccessiva rispetto alla portata della vicenda. Il rischio, semmai, ad indagini in corso, è la violazione del segreto investigativo (art. 329 codice procedura penale)”, spiega l’avvocato Massimo Borgobello.

L’avvocato Marco Cartisano aggiunge: “Il rischio è il medesimo in relazione all’utilizzo delle piattaforme social ossia quello, in primis, di ledere la reputazione delle persone diffondendo, ad esempio, notizie non vere ovvero non confermate da fonti qualificate ma basate su allusioni, suggestioni e/o meri pettegolezzi, ovvero qualificando gli interessati con epiteti ingiuriosi ovvero non rispondenti all’esatta qualifica giuridica conferita (l’indagato non è né l’imputato)”. E precisa: “L’ulteriore rischio è quello di indirizzare una campagna d’odio nei confronti di una persona totalmente estranea ai fatti, minandone la serenità personale , familiare o, in casi estremi, la sicurezza. Attenzione ai dati personali, la Cassazione ha, infatti, confermato che il reato di trattamento illecito di dati personali può essere commesso da “chiunque” e non solo dai soggetti che per legge devono osservare le prescrizioni del GDPR“.

Reato di diffamazione e true crime

Il rischio inoltre è di commettere diffamazione aggravata: “Chi non è un professionista iscritto all’albo dei giornalisti risponde del reato di diffamazione aggravata dal mezzo della stampa se non adotta i principi codificati dalla Cassazione, ovvero verità, continenza nell’illustrare il suo lavoro ed interesse pubblico; infine, il videomaker o il blogger, a differenza dei giornalisti, non potrà essere sottoposto ad alcun provvedimento disciplinare ma non potrà beneficiare delle relative tutele (es. la segretezza della fonte)”, spiega Cartisano. Concorde anche Borgobello: “Il diritto di cronaca copre tutta l’attività pubblicistica, anche se il giornalista, avendo una deontologia, può non rivelare la fonte. Nel true crime questa tutela non sussiste”.

Bisogna dunque, anche se non si è giornalisti ma content creator e si vuol fare true crime, sposare i principi di verità, continenza e pertinenza per appellarsi al diritto di cronaca, ma non si hanno le stesse tutele giuridiche di un giornalista che fa cronaca.

Diritto all’oblio, cronaca giudiziaria e true crime

Un altro aspetto giuridico da tenere presente è quello legato al diritto all’oblio che ha importanti profili di privacy. Proprio per questa rilevanza e data la possibilità di ledere la libertà altrui, il nuovo Codice dell’Ordine dei giornalisti norma la gestione dell’oblio. All’articolo 10 infatti precisa due punti fondamentali:

  • l’obbligo di rispettare l’identità personale e il divieto di far riferimento al passato del soggetto, a meno che tali dettagli non servano alla completezza dell’informazione,
  • le notizie vanno aggiornate, valutando richieste eventuali dagli interessati, inoltre si rende disponibile a semplificare la deindicizzazione dei pezzi online se ci sono i presupposti di legge per procedere.

Come precisa Cartisano, “il diritto all’oblio è tutelato dal diritto Europeo e dalla legislazione italiana che consente, in caso di diniego alla cancellazione dei dati da parte del gestore dei servizi dell’informazione, di rivolgersi al Garante Privacy”. Tuttavia, nel caso del content che fa true crime sui social, “anche il privato potrà sempre parlare di cold case riprendendo le decisioni dell’autorità giudiziaria ma sempre attenendosi alle regole di cui abbiamo già parlato“.

Insomma, piena libertà di espressione sempre senza ledere i diritti altrui. E come garanzia in assenza di deontologia intervenga l’etica personale. O almeno il buonsenso.

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