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Che lavoro sarà con gli Agenti AI: un grande studio Stanford dà qualche risposta



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Uno studio di Stanford rivela, per la prima volta su larga scala, la mappa delle attività lavorative che i lavoratori americani vorrebbero automatizzare o aumentare con agenti AI. I desideri però non sempre coincidono con ciò che è tecnicamente fattibile

Pubblicato il 2 lug 2025

Maurizio Carmignani

Founder & CEO – Management Consultant, Trainer & Startup Advisor



intelligenza artificiale al pc

Il rapporto “Future of Work with AI Agents” della Stanford University (giugno 2025) costruisce un database di oltre 800 task lavorativi mappando desideri di automazione dei lavoratori e capacità degli agenti AI.

E’ lo studio che serve a illuminare il futuro.

https://www.agendadigitale.eu/industry-4-0/agenti-ai-nuovi-lavoratori-digitali-il-futuro-in-azienda-secondo-mckinsey/

L’era degli agenti AI al lavoro

Sull’intelligenza artificiale stiamo infatti assistendo a un passaggio paradigmatico, dai modelli generativi generalisti, i noti LLM, capaci di produrre testo, codice e immagini, si sta evolvendo verso una nuova generazione di sistemi agenti, dotati di capacità operative autonome, accesso a strumenti esterni e logiche multi-step orientate al raggiungimento di obiettivi.

Non si tratta più di AI “che rispondono”, ma di entità computazionali che agiscono, pianificano, delegano e apprendono nel contesto operativo. Questa transizione ha implicazioni profonde per il mondo del lavoro. Se i modelli linguistici ci avevano abituati all’idea che “alcune parti del nostro lavoro” potessero essere svolte dall’AI, i sistemi agentici aprono uno scenario in cui interi flussi di attività – non solo output, possono essere affidati a una macchina. Ma ciò che rende questa trasformazione realmente significativa è un elemento spesso trascurato, non basta chiedersi se l’AI è in grado di svolgere un compito, ma è cruciale domandarsi se vogliamo che lo faccia.

Con questa consapevolezza, un gruppo di ricercatori di Stanford, tra cui Erik Brynjolfsson, Diyi Yang e Humishka Zope, ha avviato nel 2025 uno studio pionieristico per comprendere non solo la capacità tecnica dell’AI, ma anche il grado di desiderabilità sociale e organizzativa della sua applicazione.

Il database su lavoro e agenti AI

È nato così il progetto WORKBank, un’iniziativa che incrocia le valutazioni di 52 esperti di AI agentica con le preferenze espresse da 1.500 lavoratori attivi su 104 diverse occupazioni. Attraverso l’analisi dettagliata di 844 task professionali, selezionati dalla banca dati O*NET del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, il team ha costruito un osservatorio ricco e sfaccettato, che consente di mappare l’asimmetria tra ciò che oggi è tecnologicamente possibile e ciò che viene considerato accettabile o desiderabile da chi quei compiti li svolge quotidianamente.

Il grafico qui sotto mostra il grado di copertura settoriale del campione WORKBank rispetto alla forza lavoro statunitense. Pur con una leggera sovra-rappresentazione di settori digitali come informatica, finanza e management, il campione restituisce un quadro sufficientemente ampio da poter derivare osservazioni generalizzabili.

Come si valuta il livello di coinvolgimento umano nei task con AI

Uno dei contributi più originali e rilevanti dello studio è la definizione di un linguaggio comune per valutare il grado di coinvolgimento umano desiderato o necessario nello svolgimento dei compiti lavorativi in presenza di un agente AI.

Questo linguaggio si concretizza nella Human Agency Scale (HAS), una scala a cinque livelli – da H1 a H5 – che non misura solo ciò che un agente può fare, ma soprattutto quanto debba o dovrebbe coinvolgere l’essere umano per mantenere efficacia, senso e qualità del lavoro. La scala parte da H1, in cui l’agente AI può svolgere il task in completa autonomia, senza alcun intervento umano, fino a H5, dove l’intervento umano è imprescindibile e continuo, e l’AI può al massimo svolgere un ruolo accessorio. I livelli intermedi (H2–H4) descrivono scenari di interazione crescente, passando dalla supervisione minima alla collaborazione stretta.

Il cuore della scala è H3, dove uomo e macchina si configurano come partner alla pari, in un assetto di cooperazione simmetrica, non dissimile da quello che avviene in un team umano ben coordinato. Questa classificazione ricorda, per struttura, quella usata nel settore automotive per i livelli di guida autonoma (modello SAE), ma la supera in ambizione, puntando a descrivere non solo l’autonomia della macchina, ma anche il ruolo residuo e desiderato della persona all’interno dei processi. La scala è stata utilizzata per valutare 844 task reali, attraverso un doppio punto di vista, da un lato quello dei lavoratori, che hanno indicato il livello di agency desiderato per ciascun compito; dall’altro quello degli esperti AI, che hanno stimato il livello tecnicamente raggiungibile dalle tecnologie attuali. Un aspetto distintivo del metodo utilizzato dai ricercatori di Stanford è la raccolta di feedback attraverso mini-interviste audio integrate nella survey.

I lavoratori non si sono limitati a selezionare opzioni multiple, ma hanno potuto raccontare e motivare la propria esperienza lavorativa, verbalizzando aspettative, paure, abitudini e sfumature difficilmente catturabili con i soli dati quantitativi. Questo approccio “audio-supported” ha dato profondità al dataset, restituendo una dimensione situata e contestuale dei task, molto più vicina alla realtà del lavoro vissuto.

Spostando la focalizzazione dal binomio “automatizzabile/sì o no” a una valutazione più sfumata dell’equilibrio uomo-macchina, la scala HAS rappresenta un utile strumento per imprese, sviluppatori e policy maker che vogliano progettare AI agentiche non solo efficienti, ma anche accettabili, condivise e sostenibili nel lungo periodo.

Cosa vogliono i lavoratori al contatto con gli agenti AI

Uno degli elementi più interessanti emersi dallo studio riguarda il modo in cui i lavoratori percepiscono l’automazione degli agenti AI all’interno delle loro attività quotidiane. A differenza di molti approcci tecnocentrici che si interrogano unicamente sulla fattibilità tecnica, qui si parte da una domanda radicalmente diversa: se fosse possibile automatizzare un certo compito, vorresti davvero farlo?

I risultati sono tutt’altro che omogenei. Su un totale di 844 task valutati, ben il 46,1% riceve un punteggio positivo (superiore a 3 su una scala da 1 a 5) in termini di desiderabilità dell’automazione. Questo significa che, per quasi la metà delle attività, i lavoratori sarebbero disposti, in alcuni casi entusiasti, a delegarle a un agente AI. Il dato non implica un atteggiamento di abbandono del lavoro, bensì un desiderio di riqualificazione del tempo lavorativo, la motivazione più ricorrente è “per liberare tempo da dedicare ad attività a maggior valore aggiunto”. A seguire, tra le ragioni più citate compaiono la ripetitività e noia del compito (46,6%), la possibilità di migliorare la qualità dell’esecuzione (altro 46,6%), lo stress associato (25,5%) e la complessità oggettiva di alcuni task (15,8%).

Ma ciò che emerge con forza è una visione strumentale dell’automazione, l’AI non come sostituto dell’umano, ma come leva per liberarlo da attività a basso valore, aprendo spazi per creatività, relazioni e decisioni complesse. Non tutti i settori mostrano lo stesso entusiasmo. In ambiti come arti, design, media e formazione, prevale un atteggiamento di maggiore cautela o resistenza. Solo il 17,1% dei task in questi ambiti ottiene punteggi positivi. Dai commenti audio raccolti emerge una tensione tra efficienza e autenticità, tra l’uso dell’AI per ottimizzare flussi e il timore che essa finisca per sostituire l’espressione personale o la relazione educativa. In questi contesti che si fa più forte la voce di chi dice: “L’AI può aiutarmi a migliorare il flusso, ma non deve toccare il contenuto creativo” o “Non voglio che scriva al posto mio, ma che mi aiuti a farlo meglio”. In sintesi, se l’AI promette, ciò che in parte già realizza, un’accelerazione produttiva, la direzione desiderata dai lavoratori è chiara, più tempo per ciò che conta, non meno lavoro in senso assoluto. Un dato che dovrebbe orientare tanto le scelte progettuali dei tecnologi quanto le strategie di adozione nelle imprese.

Quello che l’AI può fare oggi con gli Agenti

Per comprendere quanto gli agenti AI siano già oggi in grado di supportare o sostituire l’essere umano, il team di Stanford ha coinvolto 52 esperti di intelligenza artificiale e agent-based systems nella valutazione di 844 task lavorativi, sulla base della fattibilità tecnica attuale. L’obiettivo: mappare non solo ciò che le persone vorrebbero automatizzare, ma anche ciò che l’AI è realmente pronta a fare. Dal confronto tra desiderio dei lavoratori e capacità tecnologica nasce una mappa a quattro quadranti, la cosiddetta desire-capability landscape, che consente di classificare ogni task in una delle seguenti zone:

  • Green Light Zone: alta desiderabilità e alta fattibilità tecnica. Sono i task pronti per essere automatizzati in modo socialmente accettabile: riconciliazione di documenti contabili, preparazione di materiali standard per la formazione come le slides, inserimento di dati ripetitivi nei CRM, generazione di minute riunioni da registrazioni vocali.
  • Red Light Zone: alta capacità tecnica, ma bassa desiderabilità. Automatizzare qui potrebbe generare frizioni, rifiuto o effetti indesiderati; scrittura di feedback formativi per studenti, interazioni personalizzate con pazienti o clienti vulnerabili, supervisione di colleghi o assegnazione di compiti
  • R&D Opportunity Zone: alta desiderabilità da parte dei lavoratori, ma bassa capacità attuale. È l’area su cui concentrare gli sforzi di ricerca e sviluppo: sintesi intelligente di grandi volumi di documenti giuridici o normativi, riconfigurazione dinamica di orari e turni in base a preferenze individuali, analisi proattiva di problemi nei flussi produttivi complessi.
  • Low Priority Zone: né desiderata né tecnicamente matura. Da tenere in secondo piano: mediazione tra persone in conflitto, valutazione di performance in team creativi, facilitazione di processi decisionali complessi e ambigui.

Questa classificazione è preziosa perché consente di orientare investimenti, policy e roadmap tecnologiche evitando sia sprechi di risorse, sia errori di progettazione sociale.

Frizioni e collaborazione tra lavoratori e agenti AI

Uno dei risultati più rilevanti, forse meno intuitivi dello studio, riguarda il disallineamento tra ciò che i lavoratori vogliono e ciò che gli esperti di AI ritengono tecnicamente possibile. Quando si guarda alla scala HAS, solo il 27% dei task presenta una corrispondenza tra il livello di coinvolgimento umano desiderato dai lavoratori e quello ritenuto necessario dagli esperti. In generale, i lavoratori preferiscono mantenere un ruolo attivo, con livelli di agency più elevati (H3–H5), anche in task che la tecnologia potrebbe svolgere in autonomia. Questo vale soprattutto per le attività che implicano relazioni umane, comunicazione empatica, capacità di giudizio o sensibilità contestuale, tutti elementi difficilmente replicabili da un agente automatizzato.

In questi casi, l’introduzione dell’AI viene vista con cautela, non come minaccia tecnica, ma come rischio di spersonalizzazione o perdita di significato. La collaborazione, più che la sostituzione, appare come la direzione preferita.

Il cambio di paradigma e le competenze del futuro per il lavoro con Agenti AI

L’integrazione degli agenti AI nel lavoro quotidiano non sta solo ridefinendo cosa si fa, ma soprattutto quali competenze restano rilevanti nel nuovo equilibrio uomo-macchina. Analizzando il livello medio di agency richiesto dai task associati alle diverse competenze (secondo la classificazione O*NET), i ricercatori evidenziano un vero e proprio spostamento di baricentro.

Le cosiddette skill informative, come l’analisi di dati, l’aggiornamento delle conoscenze o la documentazione, fino ad oggi considerate centrali nelle professioni a medio e alto reddito, mostrano oggi un declino relativo in termini di richiesta di coinvolgimento umano. In altre parole, sono tra le prime attività che l’AI può svolgere in autonomia, riducendo il bisogno di presidio umano diretto. Al contrario, aumentano di rilevanza le competenze interpersonali, organizzative e decisionali: gestire risorse, negoziare, coordinare attività, prendere decisioni in contesti ambigui, fornire consulenza, guidare team. Tutti ambiti in cui il valore dell’umano non è nella velocità o nella precisione, ma nella capacità di interpretare, connettere, mediare e responsabilizzare.

Il risultato è chiaro, la domanda non sta scomparendo, ma si sta spostando verso chi sa orchestrare processi, persone e conflitti in un ambiente aumentato dalla tecnologia. Una transizione che ha implicazioni dirette per la formazione, l’orientamento professionale e la progettazione dei percorsi di carriera.

Serve una riorganizzazione del lavoro

Il framework del WORKBank evidenzia con chiarezza che l’adozione degli agenti AI non può essere intesa come un semplice aggiornamento tecnologico, ma richiede una riorganizzazione strutturale del rapporto tra lavoro umano, automazione e valore professionale. Per il contesto italiano con una cultura professionale fortemente relazionale e una crescente pressione sull’aggiornamento delle competenze, la sfida non è solo se automatizzare, ma dove, con quali priorità e con quali modelli di coinvolgimento delle persone.

Scenario 1 – Automazione guidata e accettabile nei contesti a pronta applicabilità

I task situati nella cosiddetta “Green Light Zone”, cioè ad alta desiderabilità da parte dei lavoratori e piena fattibilità tecnica, rappresentano una leva concreta per aumentare l’efficienza, ridurre l’overload informativo e restituire tempo e attenzione alle attività ad alto valore. Ovviamente serve cautela, evitare automatismi organizzativi e coinvolgere attivamente i team nella progettazione dei flussi attraverso approcci di co-design può prevenire resistenze e rafforzare la fiducia nelle nuove soluzioni.

Scenario 2 – Ricerca e sviluppo ispirate dai bisogni delle persone

Nella “R&D Opportunity Zone”, dove la tecnologia non è ancora pronta ma il desiderio di automazione è già presente, si apre uno spazio strategico per politiche industriali e programmi di innovazione orientati dal basso. L’Italia può giocare un ruolo competitivo se saprà investire in soluzioni agentiche verticali, nate non da generiche promesse tecnologiche ma da problemi concreti segnalati dagli stessi lavoratori, carichi cognitivi eccessivi, burocrazia interna, attività ripetitive a scarso valore aggiunto. Qui può nascere l’innovazione più rilevante e più accettata.

Scenario 3 – Formazione continua, flessibile e centrata sulla relazione

Il cambiamento più sottovalutato, ma forse il più decisivo, è quello che riguarda le competenze prioritarie per il futuro del lavoro. Le skill informative e tecnico-specialistiche, sempre più accessibili alle AI, perdono centralità relativa. Cresce invece la richiesta di competenze relazionali, decisionali e di coordinamento, che implicano sensibilità, empatia e giudizio situato. Per affrontare questa transizione, servono politiche formative radicalmente nuove, che vadano oltre il semplice aggiornamento e abbraccino la logica della collaborazione uomo-AI, trasformando ogni professionista in un orchestratore intelligente del proprio lavoro, supportato da agenti, ma non sostituito.

Ultimo ma non ultimo, il presupposto trasversale, il dominio del business acumen, ovvero la capacità di comprendere processi, modelli di valore, leve economiche e obiettivi strategici. In un mondo dove l’AI può fare molto, ma non sa perché farlo, questa competenza sarà sempre più la base di ogni ruolo decisionale, manageriale e operativo.

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