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Transizione 5.0, un buon decreto per un piano imperfetto



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Il decreto attuativo di Transizione 5.0 presenta alcune sorprese positive, ma resta difficile credere che il piano sia effettivamente di supporto alla trasformazione digitale delle aziende, soprattutto delle Pmi: ecco perché

Aggiornato il 7 ago 2024

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



Robot,Arm,And,Communication,Network,Concept.,Industrial,Technology.,Industry4.0

Dopo essere stato annunciato già da diversi mesi, in seguito all’approvazione a fine febbraio da parte del Consiglio dei ministri del piano Transizione 5.0, è finalmente stato varato il decreto attuativo, inizialmente previsto entro il primo di aprile. Con effetti retroattivi, applicandosi ai progetti innovativi intrapresi dal primo gennaio 2024 fino al 31 dicembre 2025.

Non mancano alcune sorprese rispetto alla presentazione originaria del piano, diverse delle quali positive (anche se, rispetto alle versioni precedentemente circolate del decreto, cade la cumulabilità con altre agevolazioni finanziate con fondi comunitari). Tuttavia, rimane difficile immaginare che Transizione 5.0 possa essere lo strumento guida di supporto delle transizione digitale, in particolare per le piccole e medie imprese (PMI).

Un piano a misura di transizione ecologica più che di quella digitale

Prima di addentrarci nel decreto attuativo, è bene ricordare le principali novità introdotte dal piano Transizione 5.0 rispetto ai programmi precedenti e in particolare a Transizione 4.0, che resiste in parallelo ma in formato ridotto con aliquote più basse o misure scomparse rispetto a quelle in vigore fino alla fine del 2022).

In primo luogo, l’incentivo è differenziato in ragione del risparmio energetico previsto. Si passa dunque da un’aliquota compresa tra il 35% e il 45% fino a 2,5 milioni di euro, dal 15% al 25% da 2,5 a 10 milioni di euro, dal 5% al 15% da 10 a 50 milioni di euro. Considerato che, a parte l’eccezione per i software 4.0 che per il solo 2022 hanno goduto di un credito del 50% (ma solo fino a un milione di euro), in caso di risparmi energetici di almeno il 10% per l’unità produttiva e di almeno il 15% per il processo, l’aliquota risulta maggiorata del 5% rispetto a quella vigente fino al 2022.

Il che rappresenta ben il 50% in più per lo scaglione più elevato di investimenti, quello oltre i 2,5 milioni d euro. Non solo e qui siamo alla seconda importante novità: questo scaglione più elevato, che gode di incentivi (sia pure più bassi) arriva fino a 50 milioni di euro contro i 20 precedenti. Considerata anche l’inflazione piuttosto elevata di questi ultimi anni, si tratta a tutti gli effetti almeno di un raddoppio. Inoltre, l’elenco dei software eleggibili viene esteso a quelli che monitorano i consumi energetici, l’energia autoprodotta o l’efficienza energetica, nonché se acquistati congiuntamente a questi ultimi quelli per la gestione d’impresa (in pratica, i software di tipo ERP). Infine, le imprese dovranno presentare una doppia certificazione, una ex ante sulla riduzione dei consumi conseguibili e una ex post sull’effettiva realizzazione degli investimenti.

Per quanto riguarda la formazione, sulla quale si era perso dal primo gennaio 2023 qualsiasi tipo di incentivo contenuto nel piano Transizione 4.0, il piano Transizione 5.0 prevede spese agevolabili purché non superiori al 10% degli investimenti totali ed entro un tetto massimo di 300.000 euro. La formazione dovrà essere assicurata da soggetti esterni dotati di determinati requisiti.

I benefici

Come abbiamo già ricordato, rispetto agli obiettivi della transizione ecologica, la struttura del piano Transizione 5.0 sembra essere piuttosto coerente. E l’incentivazione economica è estremamente robusta, considerato il beneficio economico ulteriore che deriva dal risparmio di energia in termini di minori costi aziendali. Che peraltro, oltre a potersi cumulare con i crediti d’imposta nel biennio 2024-25, produrrà i suoi effetti anche successivamente. Rispetto alla formazione, gli interventi inizialmente configurati nel piano, che vedevano quelle digitali come di fatto solo un’appendice delle competenze in ambito green, avevano un senso rispetto alla transizione ecologica ma certamente non rispetto alla sua gemella digitale.

Idem, rispetto a quest’ultima, l’enfasi su una riduzione dei consumi energetici che, qualora la confrontabilità con quelli antecedenti l’intervento passibile di ricevere il credito d’imposta previsto dal piano non fosse stata ben congegnata, avrebbe potuto portare paradossalmente a scoraggiare l’innovazione (quantomeno quella digitale, beninteso).

Altra pesante incognita sul piano, stavolta trasversale ad entrambe le transizioni, era l’articolazione degli obblighi per le imprese richiedenti gli incentivi, dalle certificazioni tecniche sia ex ante che ex post a quelle contabili.

Il decreto attuativo

Il decreto chiarisce sicuramente molti punti e, pur dovendo operare entro i limiti fissati dal piano, viene incontro rispetto ad alcune delle potenziali critiche appena espresse.

In primo luogo, all’art. 8, che disciplina le attività di formazione, si collocano di fatto su un piano di parità le due transizioni, prevedendo che i percorsi individuati, che devono erogare corsi per una durata complessiva di almeno 12 ore, sono liberi di sviluppare 12 competenze in ambito green e altrettanto nell’alveo di quelle digitali ma debbono necessariamente comprendere almeno 4 ore afferenti all’altro ambito, scelte tra le prime quattro classi tematiche individuate: per la transizione energetica, integrazione di politiche energetiche volte alla sostenibilità all’interno della strategia aziendale, tecnologie e sistemi per la gestione efficace dell’energia, analisi tecnico-economiche per il consumo energetico, l’efficienza energetica e il risparmio energetico, impiantistica e fonti rinnovabili; per la transizione digitale, integrazione digitale dei processi aziendali, cybersecurity, business data analytics, intelligenza artificiale e machine learning.

L’art.9, che stabilisce i criteri di calcolo per la riduzione dei consumi energetici, apre decisamente le maglie per le imprese di nuova costituzione (nozione che comprende anche quelle che abbiano variato sostanzialmente i prodotti e servizi resi meno di sei mesi prima della data di avvio del progetto di innovazione), prevedendo scenari controfattuali basati su almeno tre beni alternativi disponibili sul mercato, riferito agli Stati membri UE e dello Spazio economico europeo, nei cinque anni precedenti alla data di avvio del progetto di innovazione. Dopodiché si procederà alla determinazione della media annuale dei consumi energetici dei tre beni alternativi individuati, rispetto ai quali sarà calcolato il consumo della struttura produttiva o del processo interessato dall’investimento in oggetto.

Come evidenziato in un articolo di Innovation Post, facile immaginare che i beni alternativi individuati saranno quelli con i consumi energetici maggiori possibili. Ma le maglie larghe, particolarmente vantaggiose per le imprese di nuova costituzione, riguardano anche le imprese già attive che abbiano variato sostanzialmente prodotti e servizi più di sei mesi prima dell’avvio del progetto, che possono calcolare la riduzione dei consumi rispetto a quelli medi registrati nel periodo di attività, riproporzionati su base annuale. Le altre imprese, qualora non dispongano di dati energetici registrati per la misurazione diretta, possono ricorrere a stime (purché basate su dati tracciabili e ovviamente certificate dei carichi energetici). Infine, nel caso in cui il progetto di innovazione abbia ad oggetto investimenti in più di un processo produttivo, la riduzione dei consumi energetici è calcolata rispetto alla nozione più ampia di struttura produttiva.

I contributi dell’articolo 10

Rispetto alla complessità e ai costi delle procedure previste, a garanzia della regolarità del meccanismo, il decreto prevede innanzitutto all’art. 10 un contributo fino a 10.000 euro a favore delle PMI per la copertura delle spese derivanti dalle certificazioni tecniche e fino a 5.000 euro a favore dei soggetti non obbligati per legge alla revisione legale dei conti per la copertura delle spese derivanti dalle certificazioni contabili.

Il ruolo del GSE

Inoltre, ai fini della fruizione del credito d’imposta, al di là delle linee guida e della piattaforma telematica messe a disposizione dal GSE, il soggetto pubblico preposto all’amministrazione della misura, questo è tenuto al rispetto delle tempistiche stringenti previste dall’art.12 del decreto, in particolare per i controlli ex ante.

Si prevede in particolare che, entro 5 giorni dalla trasmissione della comunicazione preventiva da parte dell’impresa richiedente, il GSE, svolte le verifiche necessarie, comunichi al soggetto interessato l’importo del credito d’imposta prenotato nel limite delle risorse disponibili. Anche qualora la comunicazione preventiva risulti incompleta o le risorse non fossero disponibili, si prevedono procedure stringenti, a tutela delle legittime aspettative delle imprese.

Sono poi previste diverse comunicazioni da parte di queste ultime, ai diversi gradi di avanzamento del progetto di investimento, alle quali corrispondono tempestive risposte di conferma dei crediti d’imposta prenotati da parte del GSE (che potrebbero essere nel frattempo variati al ribasso in caso di riduzione degli investimenti rispetto a quelli previsti nella comunicazione preventiva).

Infine, l’allargamento della platea di soggetti abilitati alle certificazioni tecniche (individuati dall’art.15), così come di coloro in grado di erogare attività di formazione (elencati nel già citato art. 8), dovrebbe alimentare una sana concorrenza, riducendo i costi per le imprese (e in particolare per quelle di minori dimensioni, che presentano probabilmente progetti più semplici e che potrebbero dunque avvalersi di una maggiore scelta tra i professionisti ai quali rivolgersi).

Conclusioni

Transizione 5.0 è dotato di risorse pari a 6,3 miliardi di euro, di cui però solo 3,78 miliardi di euro per i beni strumentali (materiali e immateriali) e 630 milioni per la formazione. Il resto (1,89 miliardi di euro) va all’autoproduzione e all’autoconsumo di energia prodotta da fonti rinnovabili. I 4,4 miliardi di euro effettivamente disponibili per progetti che includono l’innovazione digitale vanno inoltre suddivisi per i due anni di durata del programma.

È chiaro che il Governo ha dovuto fare di necessità virtù, recuperando le risorse di Transizione 5.0 dal piano REPowerEU all’interno della Missione 7, aggiunta in corso d’opera alle sei originariamente previste dal PNRR. Dunque, dovendo tenere conto innanzitutto della transizione energetica e degli obiettivi di riduzione della dipendenza degli approvvigionamenti dalla Russia, da un lato, e della crisi climatica, dall’altro. Data questa premessa e tenuto anche dei vincoli imposti da Bruxelles, il decreto che attua il Piano si spinge fino al limite del possibile, come testimonia il caso della formazione, disciplinato nell’art. 8 del decreto ministeriale, dove le competenze digitali vengono fatte risalire a un grado sostanziale di parità con quelle energetiche, nonostante i punti di partenza fossero ben diversi.

Tuttavia, occorre essere consapevoli che transizione ecologica e digitale, pur essendo spesso definite gemelle e caratterizzate certamente da estese complementarietà, siano due fenomeni distinti, che necessitano di strumenti ad hoc. Per questo, appare difficile immaginare che un piano come Transizione 5.0 possa essere il meccanismo principale per accompagnare le imprese, e in particolare le PMI, nella transizione digitale. Anche se, pur con i limiti evidenziati, non possiamo che augurare il massimo successo alla misura, che auspichiamo possa essere attivata il prima possibile, al termine di una gestazione fin troppo lunga (ma che se non altra è servita a intervenire su alcune criticità più evidenti).

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