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Il paradosso delle tlc in Italia: reti d’oro, bilanci in rosso. Come uscirne?



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Crollo verticale per le telecomunicazioni Italia: 35% di valore perso in tredici anni. Infrastrutture da primato mondiale, ma ricavi al minimo storico. Gli operatori investono miliardi senza vedere un euro di ritorno

Pubblicato il 10 giu 2025

Davide Di Labio

Associate Partner KPMG



Semplificazioni normative TLC connettività differenziata Digital Networks Act ue

Un paese dalla geografia complessa e dalla domanda esigente presenta sfide immense per la costruzione di una rete digitale d’eccellenza.

L’Italia, nonostante i molti cantieri ancora in corso ed alcuni ritardi sui piani nazionali, ha saputo complessivamente rispondere con un’infrastruttura di telecomunicazioni che si distingue per copertura, varietà tecnologica e capacità.

Miliardi investiti, fibre stese e antenne hanno creato un patrimonio digitale rilevante e competitivo, seppur non sempre pienamente “utilizzato” e sfruttato (pensiamo ad esempio ai dati di “takeup” / adozione della fibra FTTH decisamente più bassi rispetto alla media europea, o alle sfide di deployment della stessa fibra).

Eppure, sotto questa vernice di “hi-infrastructure”, i bilanci degli operatori raccontano una storia diversa, un paradosso economico che mina la sostenibilità del settore: a infrastrutture importanti corrispondono ricavi in decrescita o a stento stabili.

Un’anomalia che impone un’analisi chirurgica per disvelarne le cause e tracciare le (impervie) vie d’uscita.

Performance finanziarie a confronto europeo

Le cifre parlano chiaro, dipingendo un quadro complesso: in 13 anni, il mercato italiano delle telecomunicazioni ha perso il 35% del suo valore iniziale. Un tracollo che segue un trend difficile del mercato consumer globale generale ma che ci pone in coda tra i grandi paesi europei, dove la Spagna ha ceduto il 26%, la Francia il 12% e la Germania appena il 2%. Tra le cause una forte competizione sui prezzi, un numero di player (anche virtuali) elevato, il comportamento ribassista dei clienti ed i contesti regolatori.

Il mercato fisso, è vero, mostra recenti segnali di lieve vitalità, con una crescita del 2,5% nei primi sei mesi del 2024. Ma il mobile, il segmento di massa per eccellenza, arretra del 3,5%.

La fotografia del 2023 ha visto i ricavi complessivi del settore attestarsi sui 27,2 miliardi di euro, un dato che ha appena smosso l’ago della bilancia (+0,1 miliardi) dopo un lustro di flessione continua. Un magro bottino se paragonato agli sforzi profusi.

Investimenti record senza ritorno

Già, perché sul fronte degli investimenti, l’Italia ha fatto la sua parte, e con generosità. Circa 7 miliardi di euro all’anno, un quarto abbondante dei ricavi (il 26%), sono stati riversati nelle reti in fibra, nel 5G e in tecnologia, una spinta propulsiva amplificata dai fondi PNRR destinati a queste tecnologie. Un impegno che ha prodotto risultati tangibili sul territorio: la copertura 5G (sul 5G Stand Alone il quadro è ancora in divenire con in molti altri paesi) raggiunge oggi un importante 99,5% delle aree abitate (ben oltre l’89,3% della media UE), mentre la fibra “to-the-home” serve 15 milioni di unità immobiliari, il 59% del totale.

Eppure, questa eccellenza infrastrutturale non si traduce in valore per gli operatori. L’ARPU mobile è scivolato a 15,7 euro mensili (188,2 € annui), un calo del 2,5% sul 2022. E sul fisso, le offerte a meno di 20 euro al mese non riescono a far decollare l’ARPU oltre la media europea di circa 22,8 euro. Nel frattempo, la fame di dati degli italiani esplode: traffico mobile su del 26%, fisso del 13% nel 2023, con un consumo medio giornaliero che sfiora ormai il Gigabyte (+16,5% a inizio 2024).

Commoditizzazione e comportamento dei clienti

Come si spiega questo scollamento? La guerra al ribasso, alimentata da facile portabilità e offerte “illimitate” focalizzate unicamente sul costo, è stata una delle cause (ma, precisiamo, non l’unica) a trasformare la connettività in una commodity pura. Il valore intrinseco della rete – la sua velocità, affidabilità, capacità – è stato cannibalizzato dalla logica dello sconto. La fibra ultraveloce, venduta altrove come servizio premium, qui finisce nel bundle base a prezzi stracciati. I margini operativi ne risentono pesantemente e i flussi di cassa faticano a coprire i costi elevati di licenze (pagate a caro pranzo anni fa e a breve da rinnovare) e l’impatto dell’inflazione. Il trend dell’indicatore EBITDA-CAPEX delle telco è in costante calo, e l’incidenza dei costi operativi, a partire dal costo del lavoro e dai costi energetici, è in crescita.

A ciò si somma un fattore culturale radicato: il cliente italiano, abilmente o inevitabilmente “educato” dal mercato, è diventato un implacabile cacciatore di sconti. L’offerta più bassa è il mantra, il prezzo l’unico discriminante. L’alto tasso di churn (oltre il 20%) disegna il profilo di un utente nomade, più sensibile a pochi euro di risparmio che alla qualità del servizio o alla fedeltà al brand.

Il gap competitivo nel confronto internazionale

Le telco sono l’utility “peggio pagata”. Persino un Net Promoter Score – la metrica usata per misurare la soddisfazione e la fedeltà dei clienti – in lieve crescita (seppur notoriamente e mediamente molto più basso rispetto ad altri settori), che potrebbe essere rappresentativo di un servizio funzionante, si traduce difficilmente in una maggiore “willingness to pay”.

Il confronto internazionale, ancora una volta, inchioda la situazione. Negli ultimi anni alcune geografie hanno visto crescere i loro ricavi o comunque registrare trend migliori. Perché? Hanno saputo aumentare l’ARPU, vendendo meglio la qualità, gli upgrade tecnologici e, laddove il fronte consumer non cresceva si sono concentrate sul segmento business (quest’ultimo fenomeno comune anche all’Italia). In paesi dove il prezzo per GB è 2-3 volte il nostro, gli operatori monetizzano la differenziazione. Negli Stati Uniti, l’ARPU mobile supera i 40 € mensili; in Germania e Francia è sopra i 20 €; in Corea del Sud ultra-tecnologica si attesta sui 26,5 €.

La differenza non sta nell’infrastruttura, ma nella capacità di estrarre valore da essa.

Un settore in ebollizione: le manovre per la riconquista del valore

Di fronte a questo scenario complesso, il settore delle telecomunicazioni in Italia non è rimasto immobile. Un’intensa fase di manovre strategiche e dibattiti regolatori sta ridisegnando il panorama, nella speranza di trovare una via d’uscita dalla spirale attuale.

Sul fronte delle manovre strutturali, spiccano operazioni decisive che puntano a razionalizzare il mercato e le infrastrutture.

Si pensi all’acquisizione di Vodafone Italia da parte di Swisscom/Fastweb, un’operazione che darà vita a un nuovo colosso capace di generare significative sinergie e potenzialmente stimolare ulteriori processi di consolidamento tra gli operatori.

In parallelo, si è completata la scissione infrastrutturale di TIM con la cessione della rete fissa che ha dato vita a FiberCop, un’entità wholesale-only.

Recentemente, abbiamo assistito anche a cambiamenti nell’azionariato dell’ex-incumbent che potremmo accelerarne le strategie future. L’ipotesi futura di ulteriori consolidamenti, sia lato infrastruttura (come l’eventuale unione tra FiberCop e Open Fiber, i cui impatti richiederanno attenta valutazione, soprattutto sul profilo tariffario e sul completamento dei piani di deploy della fibra) sia lato servizi (tra le diverse ServCo), rappresenta un ulteriore tassello di questa profonda riorganizzazione, volta a creare player più solidi o infrastrutture più efficienti e neutrali.

Diversificazione e customer experience

Ma la battaglia per la sostenibilità non si gioca solo sulla struttura della rete – che peraltro rimane un asset strategico di grande interesse per gli investitori internazionali. Gli operatori cercano “nuove fonti di ossigeno” in settori adiacenti, come le incursioni nel mercato dell’energia e delle assicurazioni. Queste mosse mirano a sfruttare la vasta base clienti telco per diversificare i ricavi e rafforzare la fedeltà. Parallelamente, le offerte convergenti o quelle triple/quadruple play continuano a “blindare” quote crescenti di clienti sui pacchetti integrati, riducendo il churn. A ciò si aggiunge l’investimento massiccio nell’esperienza digitale – dai chatbot AI all’onboarding lampo, dai self-care unificati. L’obiettivo è trasformare l’efficienza operativa e la fluidità del customer journey in una percezione di valore superiore per il cliente. In un contesto altamente competitivo con elevati costi di acquisizione, aumentare la disponibilità del cliente a pagare di più o, semplicemente, a rimanere più a lungo, diventa una leva cruciale per migliorare i payback period degli investimenti nel cliente stesso.

Il quadro regolatorio e il supporto pubblico

Questo fermento strategico interno si scontra, o si integra, con i grandi nodi regolatori e governativi. Il “fair share” è un tema caldo a livello europeo e nazionale, una discussione complessa su chi debba contribuire in maniera equa agli ingenti investimenti di rete. È un dibattito che si interseca con la realtà degli operatori telco che sono al contempo grandi acquirenti di servizi cloud dalle stesse piattaforme globali di cui si chiede la contribuzione, evidenziando la complessità delle interdipendenze nel settore. Un altro tema regolatorio cruciale è il rinnovo delle licenze 5G. Decisioni prese in altri paesi, come la scelta della Germania di prolungarne i diritti d’uso gratuitamente per 5 anni, stimolano ulteriormente la riflessione tra gli operatori e i regolatori italiani ed europei sulla ricerca di un equilibrio tra condizioni di mercato e la necessità di incentivare continui investimenti in innovazione. In un settore così vitale per l’economia e la connettività, bilanciare il ricorso a forme di supporto pubblico (o quantomeno sensibilizzare il legislatore nel ponderare le decisioni) con l’imperativo di innovare e generare valore autonomamente è una linea sottile e costantemente dibattuta.

Infine, una leva potenzialmente cruciale per sbloccare il valore intrinseco delle infrastrutture risiede anche nell’evoluzione del quadro regolatorio sull’accesso wholesale. Il passaggio da un modello di ‘price cap’, focalizzato prevalentemente sui costi storici, a un ‘value cap’ che includa metriche di qualità del servizio (come SLA, latenza, affidabilità) potrebbe essere un piccolo ulteriore stimolo. Questo approccio spingerebbe la competizione wholesale dal solo prezzo alla qualità e all’innovazione. Ciò renderebbe più sostenibili le offerte premium nel retail e stimolerebbe un riposizionamento strategico più orientato al valore, con benefici diretti sull’ARPU e sulla sostenibilità dell’intero ecosistema.

Brand equity come leva strategica

Ma per uscire veramente dalla morsa della commoditizzazione, al di là delle riorganizzazioni strutturali, di mercato e delle riforme regolatorie, le telco italiane devono affrontare una sfida strategica più profonda: riconquistare il valore percepito costruendo una brand equity solida e distintiva.

In un mercato dove le offerte si assomigliano disperatamente, il marchio può e deve tornare a essere un elemento di differenziazione fondamentale. Analisi di settore confermano che la forza di un brand è correlata alla fedeltà del cliente, e quindi al posizionamento di prezzo. Non si tratta solo di logo o slogan, ma dell’immagine complessiva, della qualità percepita (che va oltre la mera velocità misurata o copertura) e della capacità di creare una relazione di fiducia con l’utente.

Le grandi tech company globali ci insegnano come si fa: Apple vende un ecosistema e un’esperienza distintiva; Amazon è un brand basato sulla comodità, la fiducia e una relazione continua con il cliente. Hanno costruito una brand equity così potente da giustificare prezzi premium e generare una fedeltà fortissima.

Valore dei brand nel panorama internazionale

Se guardiamo gli indici di brand equity, i brand telco tendono a performare bene su metriche funzionali (es. copertura percepita, affidabilità di base), ma spesso mostrano punteggi inferiori su aspetti emotivi o legati all’innovazione percepita rispetto ad altri settori.

Tuttavia, secondo recenti report sul valore dei brand nazionali, la posizione delle telco varia e può essere determinante: in Germania, Deutsche Telekom è il brand più prezioso del paese e tra i più al mondo ($73.5B), superando colossi come SAP, Siemens e Mercedes-Benz; in Spagna, Movistar è al secondo posto, subito dopo Zara; nel Regno Unito, Vodafone mantiene la leadership generale per il settimo anno consecutivo, superando HSBC e Shell; in Cina, China Mobile si posiziona al sesto posto, precedendo importanti istituzioni finanziarie come ICBC; mentre in Italia, TIM si colloca al quinto posto tra i brand più preziosi, dietro brand di lusso, energia, automotive e consumer goods come Gucci, Enel, e Ferrari.

Queste classifiche nazionali, con le loro variazioni settoriali, svelano un dato cruciale: la forza del brand telco, e il suo valore stimato rispetto ad altri settori, è un capitale potenziale che chiede di essere monetizzato. Avere un brand prezioso non è il traguardo, ma la premessa. Il suo vero potere si manifesta quando si traduce in una riconoscibilità profonda e coerente nel mercato, ancorata alla propria identità e focus strategico, capace di influenzare la scelta del cliente e giustificare il valore. L’esperienza di Verizon negli Stati Uniti è un esempio calzante di come si costruisce questa leva: il suo posizionamento premium è il risultato di decenni di lavoro metodico per cementare nella mente dei consumatori una proposizione di valore chiara e forte, basata sulla superiorità e affidabilità tecnologica.

È un percorso complesso, una battaglia su più fronti – regolatorio, strutturale, commerciale e di percezione. Solo un’azione sinergica e determinata su tutti questi livelli potrà consentire alle reti d’oro e ai service provider italiani di generare i ricavi che meritano e imprimere al settore una nuova, prospera traiettoria.

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