l’analisi di bertelè

Apocalisse automotive: chi sopravviverà all’auto elettrica



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Il settore automotive vive una trasformazione senza precedenti con l’ascesa dell’auto elettrica. Nuovi protagonisti cinesi sfidano i marchi tradizionali mentre Europa e USA cercano strategie per restare competitivi

Pubblicato il 28 mag 2025

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano



Automotive 2025 auto elettriche

Era dagli anni ’80 del secolo scorso, quando Toyota rivoluzionò il modo di produrre l’auto e non solo – just-in-time, lean production, concurrent engineering, total quality control, alcuni dei termini che all’epoca divennero popolari in tutti i comparti industriali – e pose termine al mezzo secolo di dominio di General Motors, che il comparto dell’auto non si trovava in una situazione di fibrillazione quale quella attuale.

I motivi della fibrillazione nel comparto auto

Una fibrillazione che, a differenza di quella di quasi mezzo secolo fa, ha un insieme molto più articolato di cause, che dividerei in almeno quattro parti:

  • l’auto, anche quella tradizionale con il motore a combustione interna, ha sempre più elettronica al suo interno (per automatizzare molte funzioni che in precedenza erano realizzate per via meccanica) e negli ultimi anni ha visto prepotentemente crescere il peso del software, con la messa a punto di sistemi operativi volti da un lato a coordinare i sistemi di controllo delle diverse parti e dall’altro a colloquiare con l’esterno, fornendo dati e ricevendo suggerimenti, ordini e aggiornamenti;
  • la centralità assunta dal tema della lotta contro il riscaldamento globale ha messo in moto la scelta politica di spingere verso la sostituzione della tradizionale auto con il motore a combustione interna con una auto viceversa elettrica: con una perdita di rilevanza, in quest’ultima, del motore come fattore differenziante e voce primaria di costo a favore della batteria;   
  • la transizione per ragioni ambientali all’auto elettrica è stata vissuta in modo diverso nelle tre aree più ricche del mondo: ha visto negli Usa il succedersi di momenti di spinta con brusche frenate, con l’alternarsi di presidenti quali Obama e Biden da un lato e Trump dall’altro; ha avuto una spinta fortissima nella UE con il “Green Deal” nella prima presidenza di Ursula von der Leyen, per poi rallentare nella seconda presidenza a fronte dell’amara constatazione che le imprese europee non erano affatto pronte per il cambiamento di scenario e che la transizione comportava forti rischi di perdite occupazionali; è stata vista come una grande opportunità dal governo cinese, che si è mosso velocemente per puntare alla conquista dell’intera filiera dell’auto a livello globale (dai minerali alle batterie alle auto)  e che è riuscito a far crescere un insieme di imprese estremamente competitive, rallentate nella loro espansione al di fuori della Cina dalle barriere doganali poste prima dagli US di Biden e poi dalla UE;
  • una ulteriore fibrillazione, molto più recente, è legata al caos provocato dalle “tariffe” di Trump e al clima di profonda incertezza che esse stanno provocando nel quadro geopolitico e geoeconomico mondiale.

Prospettive future tra robotaxi e nuovi mercati emergenti

Più in prospettiva (non credo a brevissimo termine per le difficoltà di accettazione da parte della popolazione ma le sperimentazioni sono in continua espansione) potrebbero essere i robotaxi a ridefinire la circolazione nelle grandi aggregazioni urbane e la guida autonoma a ridefinire il trasporto merci sulle lunghe distanze autostradali. E sempre in prospettiva, ma con le prime avvisaglie già in atto, appare destinata a cambiare la distribuzione della domanda: con un minor peso delle aree attualmente più ricche, soggette a un invecchiamento della popolazione, e con l’emergere viceversa di nuove aree in grado – per crescita della popolazione e/o del PIL pro capite – di alimentare la domanda.

La fotografia attuale del mercato globale dell’auto elettrica

Per un comparto in profonda fibrillazione solo una “istantanea” è possibile, ben consci del fatto che essa rappresenta un mondo a metà strada fra quello venutosi a creare quasi mezzo secolo fa con la “rivoluzione Toyota” e quello che potrà diventare con la “rivoluzione” in atto.

Innanzitutto, qualche numero sulla domanda mondiale, sulla sua distribuzione geopolitica e su quelli che al momento sono i principali gruppi per numero di auto vendute.

Nel 2024, secondo i dati Acea, le vendite complessive di auto (che includono i veicoli commerciali leggeri) sono ammontate a quasi 75 milioni di unità, in crescita del 2,5% rispetto all’anno precedente, mentre sono ammontate a 75,5 milioni le auto prodotte. In crisi l’UE, che ha visto la produzione calare di oltre il 6 per cento (soprattutto per le perdite delle quote di mercato in Cina), a fronte viceversa di un aumento della domanda interna.

La Cina (Fig. 1) pesa per il 30% circa sulla domanda globale, a quota 23,5 milioni. Seguono gli US a quota 16 milioni, l’Europa a quota 12. L’India, ora il Paese più popoloso del mondo e con una età media molto più bassa dei precedenti, ha superato il Giappone – 4,8 contro 4,3 milioni – e appare destinata a una forte crescita nei prossimi anni. In crescita anche il Brasile, 2,4 milioni, seguito dal Canada a 1,8.

La classifica dei più importanti gruppi per numero di auto vendute (Fig. 2) continua a vedere in testa Toyota, con un volume complessivo – ancorché in calo – di oltre 10 milioni di unità, seguita da Volkswagen, Hyundai e Stellantis (il gruppo che ha subito il maggior calo rispetto all’anno precedente). Nelle due posizioni successive GM e Ford (la prima in sensibile calo), che quasi certamente verranno superate quest’anno dalla cinese BYD, settima, che ha avuto una crescita record del 41% proseguita nei primi mesi del 2025.

Interessante il recente tentativo – però fallito – di fusione fra Honda e Nissan, che le avrebbe proiettate a pochissima distanza da Hyundai. BYD, che deve la sua crescita alle auto elettriche – sia a batteria (BEV) sia ibride plug-in (PHEV) – e alle batterie (dove è seconda al mondo alle spalle di CATL), non è l’unica cinese in fortissima crescita nel gruppo delle top 20: Cheri, dodicesima, è cresciuta del 38% e Geely (nel cui ambito si colloca anche Volvo ora in crisi), decima, del 20%. Va sottolineato poi che in Cina è in atto un grosso processo di consolidamento nel comparto delle auto elettriche, che potrebbe far emergere nuovi “campioni”: un consolidamento necessario per l’elevato numero di imprese nate per i forti stimoli governativi, ma non cresciute abbastanza per poter rimanere autonome.      

Classifiche di mercato tra volumi, ricavi e capitalizzazioni 

La classifica per volumi – date le forti differenze nelle tipologie, nei prezzi e nei margini delle auto vendute dai diversi gruppi – differisce ovviamente da quelle basate sui ricavi o sugli utili, riportate nella seconda (“revenue”) e terza colonna (“earnings”) della Tab.1 e calcolate sommando i valori degli ultimi quattro trimestri.

E, date anche le diverse prospettive che il mercato finanziario a torto o ragione si aspetta, differisce ancor più da quella – prima colonna (“market cap”) della Tab.1 – basata sulle capitalizzazioni di Borsa in data 23 maggio 2025.

Confrontando innanzitutto le classifiche basate sui volumi e sui ricavi, si vede che

  • Volkswagen scavalca Toyota (che però rimane di gran lunga prima per utili),
  • GM e Ford prendono i posti di Hyundai e Stellantis,
  • Mercedes e BMW, operanti ambedue nella fascia alta del mercato, salgono rispettivamente di 9 e 7 posizioni,
  • BYD è di due posizioni più indietro, ma è addirittura al terzo posto per capitalizzazione, date le forti aspettative sulla sua crescita.

Può essere interessante notare come, allargando lo sguardo all’intera economia, la leader di settore Volkswagen occupi l’undicesima posizione assoluta, con i suoi circa 352 miliardi di $ di ricavi da porre a paragone con i 681 di Walmart (retail e ecommerce) e i 650 di Amazon (ecommerce e cloud computing).

Toyota, largamente leader di settore per consistenza degli utili (pari a circa il triplo di quelli di Volkswagen), deve porre a paragone i suoi 46,4 miliardi di dollari con gli oltre 200 di Saudi Aramco (oil & gas) e i circa 130 delle “big tech” Alphabet-Google e Apple. L’importanza delle aspettative emerge chiaramente guardando ai rapporti fra utili e capitalizzazione di BYD e Tesla: BYD, con poco meno di 8 miliardi di $ di utile realizzato negli ultimi quattro trimestri, ne vale 175 circa in Borsa, con un rapporto pari a 22 (contro i circa 5 di Toyota); Tesla, con nemmeno 10 miliardi di utile, ne vale quasi 1.100 in Borsa, con un rapporto addirittura pari a 130 che solo l’”effetto Musk” può spiegare.

Interessante infine guardare al quarto posto per capitalizzazione di Ferrari (quarto se si esclude dal conteggio Xiaomi, da poca entrata nel comparto auto e con una piccola parte dei ricavi in esso): Ferrari -con 7,4 miliardi di dollari di ricavi, poco più di 2 di utile e 5mila dipendenti circa – ha una capitalizzazione pari a circa 40 volte l’utile, che fa sì che essa valga il 60% circa più di Volkswagen e quasi il doppio di Porsche. Il segreto? Ferrari è spesso paragonata a quella che è Hermes nella moda: essa somma al fatto di operare nella fascia più alta del lusso l’estrema esclusività, perseguita restringendo l’offerta di nuove auto e allo stesso tempo favorendo un mercato da “alto antiquariato” per le sue auto “usate”.

Volkswagen e Nissan alle prese con ristrutturazioni necessarie

I cambiamenti strutturali in corso, insieme con il caos generato

  • dalle “tariffe” di Trump, nonché
  • dalle ritorsioni alle “tariffe” stesse, quale quella della Cina che ha posto sotto stretto controllo l’export delle “terre rare” (di diverse delle quali ha quasi il monopolio) e messo a punto un pesante processo autorizzativo che potrebbe portare a rallentamenti nelle supply chain e conseguentemente nei livelli produttivi, con aumenti dei costi e possibili ricadute sulla domanda,

stanno ponendo in particolare difficoltà alcuni dei gruppi automobistici “incumbent”, costringendoli a ristrutturazioni anche di grande portata. Riporterò a titolo di esempio (non sono assolutamente gli unici) i casi di Volkswagen e Nissan, venuti alla ribalta di recente.

Volkswagen, primo gruppo al mondo come detto per fatturato e secondo per numero di auto vendute, soffre di molti dei problemi sopra citati, e in particolare

  • la sua quota di mercato in Cina è in continuo calo sotto l’attacco di imprese che, a partire da Byd,  offrono veicoli elettrici – a batteria (BEV) e/o hybrid plug-in (PHEV) – estremamente competitivi sia nel prezzo sia sempre più nelle caratteristiche qualitative;
  • soffre in Europa dell’obbligo di convertire all’elettrico una quota crescente negli anni del suo output: obbligo che mette a nudo i suoi ritardi nell’ambito digitale e in quello delle batterie, che impatta negativamente sui suoi margini (solo nel 2030 essa prevede di giungere alla parità di costo fra auto elettrica e tradizionale) e che comporta un radicale cambiamento nelle struttura dei costi;
  • teme ovviamente di rimanere penalizzato dalle “tariffe” di Trump, nella misura che emergerà dalle trattative fra US e UE, e dalle ritorsioni quali quella (sopraccennata) adottata dalla Cina sull’export di “terre rare”.   

La crisi, insieme con il minore bisogno di personale per la produzione di auto elettriche, comporta la necessità di rilevanti tagli al personale stesso – attualmente sono ben 670mila gli addetti – e al numero di fabbriche: con una ovvia forte opposizione dei sindacati, in particolare per quelli da effettuare in Germania, che ha portato nel 2024 a un compromesso (ritenuto comunque largamente insufficiente dal top management) che ha fissato in 35mila il tetto ai tagli fattibili entro il 2030, 7000 dei quali effettuati dopo l’accordo.

Sul versante giapponese è in crisi – molto più acuta – Nissan, dopo il fallito tentativo di fondersi con Honda. Dopo aver annunciato a fine aprile una perdita di 5,3 miliardi di $, superiore alle attese e motivata con i maggiori costi di ristrutturazione, il top management di Nissan ha presentato due settimane fa un piano – definito indispensabile per la stessa sopravvivenza – che prevede un taglio del 15% del personale complessivo (20mila persone circa) e la chiusura di 7 delle sue 17 strutture produttive. Della crisi e dei tagli ha risentito anche Renault, azionista di Nissan al 37%, che prevede un impatto negativo di 2,44 miliardi di $ – “impairments” inclusi – sui suoi conti del primo trimestre.

Il confronto tra incumbent storici e newcomer digitali

Perché ho definito “incumbent” sia Volkswagen sia Nissan? Perché sono due imprese sulla scena da moltissimo tempo:

  • Volkswagen (“auto del popolo”) è nata quasi novanta anni fa, nel 1937, e ha al suo interno brand come Audi, la cui fondazione risale al 1909;
  • Nissan è nata pochi anni prima, nel 1933, e ha come principale azionista al 37% (anche se con poteri molto ridotti dopo l’arresto da parte giapponese nel 2018 del CEO delle due società Carlos Ghosn) la francese Renault, fondata addirittura nel 1899. 

In contrapposizione agli “incumbent” parlerò nei prossimi paragrafi di quelli che ho definito “newcomer”: gruppi molto più giovani – più o meno coetanei delle “big tech” – cresciuti con una forte attenzione al software e ai sistemi di supporto alla guida autonoma nonché alle batterie e con una presenza più o meno significativa nelle auto elettriche.

Byd e Catl: i due “newcomer” in fase di esplosione

Catl e Byd, ambedue cinesi, le cui fondazioni risalgono rispettivamente al 2011 e al 1995, sono leader mondiali nelle batterie, avendo soppiantato i giapponesi (in primo luogo Panasonic) in tali posizioni.

Nel mese di marzo Byd aveva sorpreso il mondo con la notizia di avere messo a punto un sistema di carica per la sua batteria più avanzata che permetteva, con 5 minuti di carica, la percorrenza di 470 km; nel mese di aprile CATL ha risposto rialzando a 520 i km percorribili con lo stesso tempo di carica con la sua soluzione.

Due performance impressionanti (anche se ne dovranno essere valutati i costi), se paragonate con la situazione attuale: ai veicoli di Tesla servono attualmente 15 minuti di carica per garantire una percorrenza di 321 km, all’ultimo sistema messo a punto per Mercedes 10 minuti per una percorrenza analoga. Un più che raddoppio della velocità di carica, come sottolineato dagli analisti di Bernstein, nel giro di un solo anno, e addirittura una decuplicazione rispetto a 3-4 anni fa.

Un passo importante, se ne verrà verificata la fattibilità economica, per eliminare uno dei principali ostacoli all’acquisto di auto elettriche: la paura di restare per strada (data la scarsità di punti di ricarica nella maggior parte delle aree del mondo) e/o di una lunga attesa per la ricarica.

Ma il successo maggiore nell’ultimo anno per BYD – che ha un portafoglio molto più articolato di quello di CATL e che, come detto, produce auto elettriche sia a batteria sia ibride plug-in – è quello di aver superato in termini di volumi di vendita Tesla e di aver iniziato (come fecero quasi mezzo secolo fa i giapponesi negli US e in Europa) ad allargare verso l’alto la gamma di modelli offerti. Sta aprendo una struttura produttiva in Ungheria, per proteggersi dalle “tariffe” della UE. E ha scatenato una guerra dei prezzi in Cina in questi ultimi giorni di maggio, con un forte taglio a quelli delle sue auto, con l’apparente obiettivo di “ripulire” un mercato ancora troppo pieno di imprese al limite della sopravvivenza.

Nel frattempo, CATL desiderosa di espandere la sua presenza a livello internazionale e – come sostengono diversi analisti – di aumentare la sua valutazione sul mercato (che nel picco borsistico del 2021 aveva addirittura superato i 250 miliardi di dollari per poi scendere fortemente), ha promosso una seconda quotazione a HongKong che l’ha risalire a una capitalizzazione – oltre 160 miliardi – non lontana da quella di BYD.

Tesla: tra successo passato e sfide dell’auto elettrica cinese

Tesla è un “newcomer” secondo i criteri che ho esposto sopra – la sua fondazione nel 2003 segue di cinque anni quella di Google e precede di uno quella di Facebook – ma, visto il grande successo avuto e la sua capitalizzazione stratosferica oltre il trilione di dollari (che ha fatto diventare Elon Musk “la persona più ricca al mondo”), assomiglia in questo momento forse più a un “incumbent” che deve difendere la sua posizione: difenderla soprattutto dall’attacco di successo di BYD e degli altri “newcomer” cinesi che si sono “impossessati” della sua idea di auto elettrica – la Tesla all’epoca veniva scherzosamente definita “un iPhone con le ruote” – e hanno cercato di migliorarla, avvalendosi anche dell’ampio e variegato supporto fornito dal governo cinese.

Le “distrazioni” di Elon Musk – quelle legate allo spazio, ai social media e all’intelligenza artificiale (SpaceX è valutata 350 miliardi di dollari, xAI 120) e le politiche (capo del DOGE-Department of Government Efficiency con Trump) – hanno sicuramente avuto un ruolo nella perdita di innovatività di Tesla e (le seconde) hanno anche impattato negativamente sull’immagine della società e sulla propensione all’acquisto delle sue auto. E la Borsa, più attenta a quanto pare alle vicende personali di Musk che non alle trimestrali di Tesla, prima ne ha raddoppiato la capitalizzazione – quasi 1.400 miliardi di dollari a fine dicembre rispetto ai 700 nel mese precedente l’elezione di Trump – per poi farla ricadere a quota 770 durante il suo periodo al DOGE e farla risalire, a partire da quando si è prospettato il suo abbandono della politica, ai quasi 1.100 miliardi attuali.

Baidu, Huawei e Xiaomi: tre “newcomer” digitali che si stanno facendo strada nell’auto

Se BYD è arrivata all’auto elettrica partendo dalle batterie, con un processo di integrazione a valle che penso rappresenti uno dei suoi punti di forza, ci sono altri “newcomer” – operanti con successo nel mondo digitale – che si stanno differenziando nei mondi (con forti sovrapposizioni fra loro ma non coincidenti) dell’auto elettrica, della guida autonoma e dei robotaxi. Tre i nomi, tutti cinesi, che voglio citare:

  • Huawei, fondata nel 1987 e tuttora privata, con un passato a livello internzionale importante nelle apparecchiature per telecomunicazioni ma poi bandita da molti Paesi per il sospetto di spionaggio, con una importante presenza in Cina anche negli smartphone (19% la quota di mercato), con un recente successo nella messa a punto di microprocessori in grado di emulare le prestazioni di quelli di Nvidia (su cui gli US avevano posto un bando alla vendita alla Cina) nella costruzione e  consultazione dei modelli avanzati di AI,
  • Baidu, fondata nel 2000, spesso indicata nel passato come la “Google cinese” e citata a fianco delle più grandi Alibaba e Tencent,     
  • Xiaomi, fondata nel 2010, con una quota di mercato pari a quella di Huawei negli smartphone e una presenza in altri prodotti (dispositivi IoT, smart TV) e servizi (Xiaomi Cloud).  

Huawei, per fornire una idea delle sue dimensioni, ha fatturato quasi 120 miliardi di $ nel 2024 (un valore che se fosse quotata la collocherebbe nella sessantesima posizione assoluta a livello mondiale), con un incremento di oltre il 22% rispetto all’anno precedente. Baidu è molto più piccola: 18,5 miliardi di fatturato e un po’ meno di 30 di capitalizzazione. Xiaomi ha un fatturato di 42 miliardi di $, poco più di un terzo di quello di Huawei, ma una capitalizzazione – 170 miliardi – allineata a quella di BYD.

Fanno cose diverse:

  • Huawei è soprattutto attiva come fornitrice di componentistica avanzata, ma ha pure brand propri (con il manufacturing commissionato a produttori minori)
  • Xiaomi è molto più focalizzata, rispetto a Huawei, sull’auto. Dopo il successo del primo modello, ne sta lanciando un secondo, con prestazioni molto elevate, concepito come diretto concorrente in Cina del Model Y di Tesla. Ha avuto però un serio problema anche di immagine a fine marzo, per un incidente con tre morti di un suo veicolo che si è schiantato contro una barriera mentre stava funzionando in modalità “Navigate-on-Autopilot (NOA)”
  • Baidu infine è il più grosso operatore di robotaxi in Cina, dove opera in 10 città e in misura più ridotta a HongKong. Con il suo servizio Apollo Go ha effettuato 1,1 milioni di corse nell’ultimo trimestre del 2024 e ha raggiunto a gennaio 2025 la quota cumulativa di 9 milioni. Punta ora a portare il suo servizio al di fuori della Cina, con trattative in corso con Svizzera e Turchia.

Europa e Cina invertono i ruoli nell’industria dell’auto elettrica

Per molti anni le imprese europee – le tedesche soprattutto – hanno avuto un ruolo primario nell’insegnare alla Cina come costruire le auto, per il mercato interno soprattutto ma poi anche per l’export. Il modello concordato con le autorità cinesi era quello di creare joint-venture in Cina con imprese prevalentemente statali e di trasferire a esse le tecnologie.

Ora sembra che la situazione si stia rapidamente rovesciando. Le auto elettriche cinesi, come detto, sono diventate estremamente competitive anche in termini di prestazioni ed è l’industria europea che arranca nel cercare di rispettare gli obblighi di progressivo passaggio all’elettrico, per il momento difesa dalle “tariffe” molto elevate – ancorchè nettamente inferiori a quelle statunitensi – approvate al tempo della presidenza Biden. Che cosa sta facendo ora la UE? Vuole promuovere joint-venture in Europa e messa a disposizione di tecnologie, in cambio del permesso di accesso al ricco mercato europeo.

Un passo indispensabile, che segnala però tristemente la nostra perdita di spinte innovative in quello che tradizionalmente è stato uno dei nostri tradizionali punti di forza e una delle principali sorgenti di posti di lavoro.

Software, batterie, sistemi per la guida autonoma e robotaxi rappresentano il futuro dell’auto?

Io credo di sì. Una spinta che era nata da esigenze ambientali e che ha messo in moto grandi risorse – pubbliche ma anche private – per rispondere agli obblighi imposti dalla politica, si sta progressivamente trasformando in un fattore di mercato che per certi versi prescinde dall’ambiente.

La tecnologia corre in modo velocissimo, l’intelligenza artificiale giocherà presumibilmente un ruolo rilevante, nuovi consumatori entreranno sulla scena con nuove esigenze.

E l’Ue, il nostro Paese? La speranza è che ci si muova, che nuove imprese riescano a fare quello che le “incumbent” faticano a fare, che le nostre risorse finanziarie vengano sfruttate costruttivamente anche al nostro interno e non prendano altre strade alla ricerca di più elevati rendimenti (quelli che maturano laddove si sa gestire meglio il rischio). 

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