A metà aprile, il giudice federale Leonie Brinkema del Tribunale distrettuale della Virginia orientale ha stabilito che Google avrebbe violato le leggi antitrust degli Stati Uniti mantenendo illegalmente un monopolio nella tecnologia pubblicitaria utilizzata per la compravendita di spazi pubblicitari online, in particolare nei due segmenti dei servizi ad exchange e ad server.
La corte ha invece respinto l’accusa relativa al mercato delle reti pubblicitarie per inserzionisti, ritenendo che non fosse stato dimostrato che costituisse un mercato rilevante separato.
A settembre è previsto il processo antitrust per stabilire i rimedi.
Ftc ossia il Governo Usa chiede lo scorporo da Google di quei due rami.
Tra tutte le grane antitrust di Google (sotto scacco anche per monopolio su search e android), questa qui è forse la meno nota, perché è più tecnica. Ma è anche probabilmente la più rilevante per l’economia del web e l’editoria digitale, che si regge per buona parte sulla pubblicità.
E’ importante quindi capire un po’ meglio cosa significa quando si parla di monopolio Google in rami della pubblicità online.
Indice degli argomenti
Monopolio Google: un sistema pubblicitario senza pari
Quando si parla di Google, si è spesso portati a considerarla come un’entità monolitica. In realtà, già solo l’insieme dei procedimenti legali in corso delinea un’organizzazione molto più articolata. Il sistema pubblicitario di Google rappresenta una delle architetture più sofisticate e redditizie nel panorama globale dell’advertising digitale. Secondo il report ufficiale di Alphabet per l’anno fiscale 2024, i ricavi pubblicitari totali hanno raggiunto i $273,37 miliardi, suddivisi principalmente tra tre linee di prodotto:
- Google Search & Other: $198,08 miliardi
- YouTube Ads: $36,15 miliardi
- Google Network: $30,36 miliardi
Queste tre componenti costituiscono il cuore della divisione Google Services, che complessivamente ha generato $304,93 miliardi nel 2024, pari all’87% dei ricavi totali di Alphabet, che ammontano a $350 miliardi.
Per comprenderne a fondo la portata, confrontiamo i dati nello stesso anno di:
- Meta, $160 miliardi in ricavi pubblicitari, con una crescita del 22% rispetto all’anno precedente
- Amazon, $56,2 miliardi di ricavi pubblicitari, con una crescita del 20% rispetto all’anno precedente (pag. 67 di Amazon Annual Report).
Questi dati evidenziano come Google domini il mercato pubblicitario digitale, superando significativamente i suoi concorrenti in termini di ricavi.
Il confronto con il mercato dell’advertising statunitense
Secondo il report “Measuring the Digital Economy” pubblicato dall’Interactive Advertising Bureau (IAB) nel 2025, la spesa pubblicitaria totale negli Stati Uniti ha raggiunto i $397 miliardi nel 2024. Questo dato comprende tutte le forme di pubblicità (incluse quelle offline).
Per quanto riguarda i media tradizionali negli Stati Uniti nel 2024:
- Televisione: $58 miliardi, rappresentando circa il 18% della spesa pubblicitaria totale;
- Radio: $13 miliardi, mantenendo una quota stabile rispetto all’anno precedente;
- Stampa: i ricavi pubblicitari per la stampa sono diminuiti del 3%, attestandosi a $8 miliardi.
L’offerta pubblicitaria di Google: come funziona
Ho già approfondito la struttura della filiera pubblicitaria di Google in un precedente articolo pubblicato su Agenda Digitale, intitolato “Antitrust contro Google: gli impatti sul mercato pubblicitario”. Qui riprendo sinteticamente gli elementi essenziali per comprendere il funzionamento del sistema e il perché delle accuse di monopolio.
L’offerta pubblicitaria di Google si articola in tre componenti principali:
- Ad server (per publisher): tramite Google Ad Manager (ex DoubleClick for Publishers), Google fornisce agli editori lo strumento per gestire e vendere i propri spazi pubblicitari. Secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, nel 2022, Google deteneva una quota di mercato del 91% a livello globale nel settore degli ad server per publisher.
- Ad exchange: con Google AdX, Google gestisce le aste automatizzate per la compravendita di spazi, fungendo da piattaforma centrale dove si incontrano domanda e offerta. Il Dipartimento di Giustizia stima che, nel 2022, Google controllasse circa il 56% del mercato globale degli ad exchange.
- Strumenti per inserzionisti: attraverso Google Ads e Display & Video 360, gli inserzionisti possono pianificare, acquistare e misurare campagne pubblicitarie su vasta scala. Nel 2025, Google Ads detiene una quota del 69,04% del mercato pay-per-click (PPC) a livello globale. Questo ramo non è stato considerato monopolio illecito dal giudice.
Perché è monopolio illecito
Questa integrazione verticale consente a Google di controllare contemporaneamente le piattaforme utilizzate da editori, acquirenti e intermediari pubblicitari. È proprio questa posizione trasversale — unita all’elevato market share detenuto in ciascun segmento — a essere contestata dalle autorità antitrust, che vi ravvisano un potenziale abuso di posizione dominante.
Monopolio Google: le sentenze Usa e Ue
La sentenza sul monopolio adv di Google rappresenta la terza significativa battuta d’arresto per il colosso di Mountain View in ambito antitrust dal 2023.
Negli Stati Uniti, infatti, l’azienda è coinvolta in altri procedimenti di rilievo: uno relativo al mantenimento del predominio del motore di ricerca attraverso accordi esclusivi con partner strategici (il cosiddetto caso “DOJ Search”), e un altro sul presunto abuso di posizione dominante nel mercato della distribuzione di app Android tramite il Play Store.
Sul fronte europeo, l’indagine avviata nel 2021 dalla Commissione europea sulla filiera pubblicitaria di Google resta formalmente aperta, ma finora priva di sviluppi pubblici. La decisione della corte americana potrebbe ora rappresentare un precedente significativo anche per le autorità UE.
Dove finisce il monopolio e dove inizia il merito?
È necessario sottolineare esistono piattaforme alternative: da Meta ad Amazon, fino a soluzioni open source e indipendenti nel Programmatic Advertising. È sempre l’adozione da parte degli utenti e degli inserzionisti a determinare, in ultima analisi, quale piattaforma prevale. Al momento, questa preferenza continua a premiare Google.
Va anche detto che non tutte le attività di Google nel settore pubblicitario sono necessariamente monopolistiche.
Il successo di Google Ads, ad esempio, è anche dovuto alla sua efficacia nel generare risultati per gli inserzionisti, grazie a un’enorme base di dati e a un motore di ricerca che resta il più usato al mondo.
La differenza sta nel modo in cui Google ha, nel tempo, chiuso l’ecosistema, rendendo sempre più difficile per editori e inserzionisti usare strumenti alternativi in modo efficace.
Un esempio concreto riguarda le limitazioni imposte da Google ai publisher che tentano di utilizzare simultaneamente ad server alternativi al suo Google Ad Manager: secondo le indagini del DOJ, l’azienda avrebbe imposto vincoli tecnici che rallentano o penalizzano l’integrazione con piattaforme concorrenti, rendendo così meno efficiente l’utilizzo di soluzioni diverse da quelle proprietarie.
In conclusione, la posizione dominante di Google non è illegale di per sé, ma lo diventa se viene sfruttata per ostacolare la concorrenza e limitare l’accesso al mercato da parte di altri operatori. Ed è proprio su questo punto che si concentrano due procedimenti distinti, avviati dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ), ciascuno con oggetto e implicazioni specifiche.
La prima sentenza, emessa nell’agosto 2023 dal giudice Amit Mehta, riguarda il mercato della ricerca online. In quel caso, il DOJ ha accusato Google di mantenere il monopolio sul motore di ricerca attraverso accordi esclusivi con produttori di dispositivi e browser — come Apple e Mozilla — per essere impostata come motore di default. Il giudice ha riconosciuto che Google ha effettivamente violato la Sezione 2 dello Sherman Act, abusando della propria posizione dominante per escludere i concorrenti.
Diverso è il procedimento che ha portato alla più recente sentenza (aprile 2025) pronunciata dal giudice Leonie Brinkema presso il Tribunale distrettuale della Virginia orientale. In questo caso, il DOJ ha contestato a Google il controllo anticoncorrenziale sull’intera filiera tecnologica della pubblicità online, con particolare riferimento ai segmenti degli ad server e ad exchange. Secondo l’accusa, Google ha manipolato le aste pubblicitarie e favorito il proprio exchange (AdX) a scapito di piattaforme concorrenti, imponendo condizioni svantaggiose a editori e inserzionisti.
Google monopolista nella pubblicità, cosa potrebbe fare l’Europa?
Dopo la recente sentenza negli Stati Uniti che ha riconosciuto l’abuso di posizione dominante da parte di Google nel settore dell’ad tech, cresce la pressione affinché anche l’Europa adotti misure più incisive. Margrethe Vestager, ex Commissaria europea alla Concorrenza, ha sottolineato l’importanza di garantire che nessuna azienda, per quanto innovativa, sia al di sopra della legge. In un’intervista, ha dichiarato: “Nessuno è al di sopra della legge. Le regole devono essere applicate equamente per tutti, indipendentemente dalla loro dimensione o influenza”. Alcuni esperti suggeriscono che l’Europa dovrebbe considerare misure strutturali più audaci, come la separazione delle attività pubblicitarie di Google. Secondo un rapporto del Wall Street Journal, 18 ex leader europei hanno espresso preoccupazione per l’impatto del monopolio pubblicitario di Google sul panorama mediatico europeo, suggerendo la necessità di un intervento deciso.
Il Dma
Il Digital Markets Act (DMA), recentemente entrato in vigore, offre all’UE nuovi strumenti per affrontare le pratiche anticoncorrenziali delle grandi piattaforme digitali. Il DMA mira a garantire mercati digitali equi e contestabili, imponendo obblighi specifici ai “gatekeeper” come Google. Questi obblighi includono, tra l’altro, il divieto di favorire i propri servizi rispetto a quelli dei concorrenti e l’obbligo di garantire l’interoperabilità dei propri servizi con quelli di terze parti. Tuttavia, l’efficacia dipenderà dalla sua rigorosa applicazione. Come osservato in un’analisi di Le Monde: “quasi tutto resta da fare nella lotta contro gli abusi di posizione dominante delle Big Tech” . Ciò implica non solo l’adozione di nuove normative, ma anche la volontà politica di applicarle con determinazione.
Insomma, l’Europa ha ora l’opportunità di guidare la regolamentazione del settore digitale, garantendo che l’innovazione tecnologica proceda di pari passo con la tutela della concorrenza e dei diritti dei consumatori. Le decisioni prese nei prossimi mesi saranno determinanti per il futuro del mercato digitale europeo.
Monopolio Google nella pubblicità: perché è tema centrale per l’economia del web e l’editoria
La sentenza di aprile 2025 contro Google è centrale per comprendere il futuro dell’economia del web, specialmente ora che la ricerca online sta entrando in una nuova era guidata dall’intelligenza artificiale.
Per anni, l’intero ecosistema digitale è stato sostenuto da un modello basato sulla pubblicità: un equilibrio in cui gli utenti accedevano gratuitamente ai contenuti, i siti generavano traffico attraverso i motori di ricerca e i ricavi arrivavano dagli annunci, spesso erogati e intermediati proprio da Google. La decisione del tribunale, che riconosce un comportamento anticoncorrenziale da parte di Google nel controllo combinato del suo ad server per editori e dell’ad exchange, mette in discussione la legittimità di questo sistema e apre uno spazio per ridefinire le regole della pubblicità digitale.
L’AI pone nuove sfide al web
Nel frattempo, l’avanzata della search basata sull’intelligenza artificiale – quella che non restituisce più solo link, ma risposte dirette e conversazionali – sta già cambiando le modalità con cui le persone accedono all’informazione e ai servizi.
Questo nuovo paradigma riduce la visibilità dei siti web tradizionali, limita le opportunità di monetizzazione tramite banner e referral, e rischia di concentrare ancora di più il potere editoriale ed economico nelle mani di chi controlla sia l’infrastruttura tecnologica dell’AI che i canali pubblicitari integrati.
Se Google, già dominante nella search classica, manterrà un ruolo centrale anche nella search AI e continuerà a imporre le sue logiche commerciali, si rischia una forma di concentrazione senza precedenti: chi governa la piattaforma potrà decidere non solo quali risposte mostrare, ma anche quali inserzionisti far emergere, in quale forma e con quali criteri, influenzando così in modo diretto l’economia, il commercio e l’informazione online.
In questo contesto, la questione antitrust non riguarda solo il passato ma è cruciale per evitare che il futuro della rete diventi opaco, dominato da poche entità in grado di controllare sia l’accesso alla conoscenza sia i flussi economici che la sostengono.
Difendere la concorrenza oggi significa garantire la possibilità che, anche nel nuovo mondo della search AI, esistano alternative, pluralismo, trasparenza e spazi di sopravvivenza economica per l’editoria indipendente, i piccoli operatori digitali e le imprese che non vogliono dipendere da un’unica piattaforma per essere trovate, lette o scelte.
Scorporo: sì ma non bata
Dall’eventuale scorporo, i benefici principali riguarderebbero la maggiore concorrenza nell’ambito dell’intermediazione pubblicitaria, consentendo a piattaforme terze di emergere con soluzioni alternative per editori e inserzionisti. Gli editori, in particolare, potrebbero trovarsi in una posizione più forte, con la possibilità di negoziare condizioni più favorevoli per la vendita dei loro spazi pubblicitari, senza l’influenza dominante di Google.
Lo scorporo potrebbe quindi rivelarsi una soluzione positiva per la concorrenza, ma richiede una pianificazione meticolosa per evitare l’emergere di nuovi monopoli. Vedi i baroni dei chatbot che sempre più usano e bypassano i contenuti degli editori.
È essenziale che le politiche antitrust e le regolamentazioni siano adattate per garantire che non si creino nuove concentrazioni di potere, soprattutto nei nuovi contesti legati alla search AI e alla pubblicità integrata nelle risposte.
Un ruolo lo giocherà anche il copyright e un sistema di licensing di questi contenuti, come più volte trattato dalla nostra testata.
La sfida per il futuro dell’economia digitale sarà quella di garantire un equilibrio tra innovazione, concorrenza e trasparenza, affinché il web rimanga un ecosistema aperto e competitivo, dove le opportunità per editori, piccole imprese e innovatori non vengano soffocate dalle dinamiche di un potere centralizzato.
Alessandro Longo