Dal 28 giugno 2025 tutti gli e-commerce, se gestiti da aziende che occupano almeno 10 dipendenti o (alternativamente) superano i 2 milioni di euro di fatturato, dovranno rispettare i requisiti di accessibilità previsti dal Decreto Legislativo 82/2022, che ha recepito in Italia la Direttiva UE 2019/882 (comunemente detta European Accessibility Act).
La normativa, attuata in Italia anche attraverso l’adozione delle Linee Guida AGID del 29 aprile 2025, impone che i servizi di commercio elettronico siano progettati in modo da essere utilizzabili anche da persone con disabilità, con criteri tecnici definiti negli standard WCAG 2.1, livello AA.
Sebbene il decreto non menzioni espressamente le WCAG 2.1, tali standard rappresentano il riferimento tecnico implicito per la valutazione dell’accessibilità. Questa interpretazione è confermata dal contenuto delle Linee Guida AGID e dalla coerenza con le specifiche tecniche armonizzate europee, tra cui la norma EN 301 549, che richiama le WCAG come standard di riferimento per garantire la conformità.
Proviamo allora a chiarire cosa prevede realmente la normativa per gli e-commerce, illustrare in modo operativo i passaggi per la conformità entro la scadenza del 28 giugno 2025, e smontare le distorsioni generate da letture approssimative o interessate, spesso diffuse in un mercato sempre più aggressivo e concorrenziale.
Questo articolo, invece, non ha l’obiettivo di soffermarsi sulle definizioni dell’accessibilità né sui principi fondanti come percepibilità, operabilità, comprensibilità e robustezza, già ampiamente trattati sulle pagine di questa testata. L’interesse è focalizzato esclusivamente sugli obblighi operativi per i soggetti coinvolti.
Indice degli argomenti
Le 5 fasi per garantire la conformità agli obblighi di accessibilità
E allora, per le imprese soggette all’obbligo, il percorso di adeguamento che proponiamo si articola in cinque fasi operative, da gestire con il supporto integrato di figure legali e tecniche. Dopo decine di progetti di compliance seguiti negli ultimi mesi, ritengo che questa sia l’unica strada concreta per garantire un’accessibilità reale, sostenibile e giuridicamente solida, rivolta a quelle aziende che intendono affrontare l’obbligo con serietà e responsabilità.
Primo step, l’assessment legale: cos’è, chi lo fa, le implicazioni
E allora, il primo passaggio è un assessment legale che serve a determinare se l’obbligo sussiste per l’impresa, se vi sono eccezioni applicabili e quale sia lo standard tecnico richiesto. Si tratta del documento che fonda l’intero processo decisionale. Definisce i confini giuridici entro cui si muoverà l’azienda, stabilisce su quali basi è stata assunta la responsabilità delle scelte e chiarisce preventivamente eventuali esclusioni. Può essere redatto da un avvocato esterno oppure dal dipartimento legale interno all’azienda, qualora questa intenda assumersi direttamente la responsabilità delle scelte effettuate. La decisione dipende dal livello di autonomia e di rischio che l’organizzazione è disposta a gestire. La sua redazione ha implicazioni concrete anche in sede di audit e nella compilazione della dichiarazione finale di accessibilità. Vedremo perché.
Secondo step: gap analysis tecnica e strumenti utili
Il secondo step è la gap analysis tecnica. Si tratta di una fase più analitica e operativa, che può essere affrontata in tre modi diversi.
Le aziende possono scegliere di procedere in autonomia, utilizzando tool gratuiti come Lighthouse o Wave, spesso già integrati nei browser di sviluppo o utilizzare un servizio terzo di analisi (ce ne sono molti sul mercato).
In alternativa, possono affidarsi a un accessibility specialist, che utilizza strumenti avanzati e abbina la rilevazione automatica a un’analisi manuale più approfondita, con il valore aggiunto di affiancare attivamente gli sviluppatori nella successiva fase di remediation, garantendo coerenza e continuità nell’applicazione delle correzioni. Quest’ultima opzione, rappresenta a mio avviso la via più solida per affrontare seriamente il tema dell’accessibilità perché non solo garantisce un’analisi più completa, ma consente anche di costruire internamente competenze e procedure che resteranno patrimonio aziendale ben oltre l’obbligo normativo. In ogni caso, i rilievi devono essere tracciati e documentati con precisione, così da permettere una pianificazione efficace e strutturata della fase di remediation.
La terza fase: remediation tecnica per l’accessibilità
La terza fase è la remediation tecnica, che è il cuore operativo dell’adeguamento. Qui si interviene direttamente sul codice e sull’architettura del sito: vengono aggiunti testi alternativi, rivisti i contrasti, ridefinite le etichette nei form, migliorata la semantica HTML e adattato il design per garantire una fruizione accessibile su tutti i dispositivi. È una fase complessa, ma che richiede meno effort di quello che si possa immaginare, e che necessita di coordinamento tra sviluppatori, designer e consulenti.
La quarta fase: audit legale e valutazione finale
Il quarto step, che incredibilmente non viene assolutamente quasi mai menzionato nelle roadmap di conformità, è l’audit legale finale, chiamato formalmente dalla normativa con il nome di “valutazione”. Si tratta di un’attività importantissima su cui si fonda l’intero processo di compliance, richiamata spesso nelle Linee guida dell’AGID. È un momento decisionale: si verifica la conformità raggiunta, si valutano le eventuali non conformità residue e, se del caso, si attiva il principio di onerosità sproporzionata.
L’audit legale è, sostanzialmente, un atto di responsabilità: chi firma si assume la titolarità delle scelte fatte, anche rispetto a ciò che resta fuori. Per questo la fase di audit rappresenta il momento, a mio avviso, assolutamente cruciale, di tutto il processo. Chiude il ciclo della conformità, cristallizza le scelte compiute e le relative giustificazioni e tutela l’organizzazione anche nel caso di controlli o contestazioni future, perché dimostra che ogni decisione è stata presa consapevolmente e documentata in modo tracciabile.
E a tal proposito è utile richiamare un elemento spesso trascurato: le Linee Guida AGID prevedono espressamente l’obbligo di documentare non solo il rispetto dei requisiti di accessibilità (sì, anche se siamo conformi dobbiamo provarlo documentalmente noi), ma anche le eventuali non conformità residue, accompagnate da una valutazione scritta che segua passo per passo i criteri previsti. Questo significa che l’audit legale deve produrre un vero e proprio fascicolo, strutturato e motivato, che possa giustificare ogni scelta e offrire copertura documentale in caso di verifiche. E si badi bene, non sto mica interpretando la normativa, la sto solo menzionando. È tutto chiaro e messo nero su bianco: non basta dichiarare la non conformità, è necessario dimostrare (documentalmente) di averla analizzata, valutata e gestita secondo i parametri indicati dalla normativa stessa.
Il nostro studio legale, per esempio, effettua l’audit tecnico (con gli strumenti dell’AGID), e l’output generato viene allegato alle valutazioni legali come prova documentale, con un approccio integrato. In questa fase, al fine di motivare compiutamente eventuali scelte di esclusione o applicazione di eccezioni, richiediamo documentazione specifica: bilanci e fatturato, per valutare l’impatto economico; percentuali di utilizzo o di vendita dei prodotti da parte di persone con disabilità, per stimare la rilevanza della funzione; informazioni su eventuali componenti o moduli esterni che non possono essere modificati. Tali elementi sono fondamentali per applicare correttamente i principi di proporzionalità, sostenibilità economica e giustificazione tecnica previsti dalla normativa.
Inoltre c’è un punto importantissimo, anche questo per nulla considerato: le predette linee guida impongono alle aziende l’obbligo di comunicare formalmente all’AGID le non conformità e le eventuali eccezioni dichiarate. Questo implica una responsabilità formale e sostanziale anche nei confronti dell’autorità preposta alla vigilanza. Non è mica sufficiente dichiarare una conformità parziale e archiviare la questione, come in molti pensano. E come in molti fanno.
Chi firma la valutazione, o redige il fascicolo in caso di non conformità giustificate, si assume pienamente la responsabilità legale delle affermazioni contenute nel documento. È per questo che la scelta tra un’autovalutazione interna e una validazione da parte di un legale esterno è profondamente strategica. Definisce a chi è attribuibile la titolarità delle decisioni in caso di controlli, reclami o contenziosi. È qui che si concentra il nodo della responsabilità, ed è anche per questo che questa fase non può essere sottovalutata. E tutto ciò ha effetti anche sulla “dichiarazione di accessibilità”.
La dichiarazione di accessibilità: obblighi informativi e monitoraggio
E a tal proposito, la “dichiarazione di accessibilità” conclude il processo.
Chiariamo subito un punto che genera spesso confusione: la cosiddetta “dichiarazione di accessibilità” non è prevista, in questi termini, per i soggetti privati obbligati dal recepimento dell’Accessibility Act. Il concetto di dichiarazione formale, come atto giuridico nominato, riguarda le pubbliche amministrazioni e, in alcuni casi, le imprese con un fatturato annuo superiore a 500 milioni di euro.
Tuttavia, ciò non significa che i soggetti tenuti all’adeguamento siano esonerati da obblighi informativi: al contrario, il decreto legislativo italiano e le Linee Guida AGID stabiliscono che i fornitori di servizi digitali devono pubblicare sul proprio sito, nelle condizioni generali o in un documento equivalente, informazioni dettagliate sulla valutazione di accessibilità.
In particolare, devono essere forniti: una descrizione generale del servizio in formati accessibili; spiegazioni funzionali che ne illustrino il funzionamento; una descrizione puntuale del modo in cui il servizio soddisfa i requisiti previsti dall’allegato I del decreto. Ma soprattutto, ed è un passaggio dirimente, tali informazioni devono “dimostrare” che il servizio – e il processo che ne garantisce la fornitura e il monitoraggio – rispettano i requisiti di accessibilità.
Questo significa che non è sufficiente enunciare l’intenzione o la volontà di conformarsi, ma è necessario predisporre e conservare prove documentali tangibili e verificabili. In assenza di queste, la dichiarazione rischia di perdere valore giuridico e operativo. Si tratta quindi un’informativa pubblica dettagliata, soggetta a controllo, con precisi obblighi di contenuto, responsabilità e prova. Ecco, quindi, la nuova versione della “dichiarazione di accessibilità”. Diciamo che è la sintesi formale dell’intero percorso, e dell’audit legale.
Un aspetto poco noto, ma di rilevanza giuridica evidente, è che la “dichiarazione di accessibilità” deve essere sottoscritta congiuntamente: da un lato, da chi ha redatto la valutazione legale (o il fascicolo tecnico-giuridico, in caso di conformità parziale); dall’altro, dal cosiddetto “referente dell’accessibilità”, figura interna prevista dalle Linee Guida AGID. Il referente ha un ruolo di coordinamento operativo e rappresenta il punto di contatto per le attività legate all’accessibilità digitale all’interno dell’organizzazione. La sua firma nella dichiarazione attesta che l’organizzazione è consapevole, informata e impegnata nel mantenere e aggiornare lo stato di accessibilità dichiarato.
E proprio in tal senso, la dichiarazione è certamente un impegno formale alla continuità. Tale continuità è prevista esplicitamente anche dalle Linee Guida AGID, che richiamano la necessità di effettuare un monitoraggio periodico dell’accessibilità dei servizi digitali. In particolare, è previsto che le informazioni pubblicate siano aggiornate, per verificare eventuali difformità e per garantire che restino affidabili, corrette e coerenti con lo stato effettivo del servizio.
Le tre distorsioni comuni sull’accessibilità e-commerce da evitare
A questo, punto, conclusa la roadmap di conformità, prima di chiudere l’articolo, ritengo necessario sgombrare il campo da tre fraintendimenti diffusi che rischiano di compromettere l’intero processo di adeguamento. La chiarezza normativa, infatti, non sempre trova riscontro nella narrazione “commerciale” di chi deve vendere servizi e prodotti relativi all’accessibilità.
Anzitutto, va precisato che la normativa non prevede la possibilità di inserire, al 28 giugno 2025, una “dichiarazione di accessibilità” parziale come misura transitoria. Sarebbe a dire una informazione del tipo “non siamo ancora conformi ma ci stiamo adeguando”. Il Decreto Legislativo 82/2022 è in vigore dal 2022 e non sono previste proroghe. La dichiarazione parziale è ammessa solo se adeguatamente motivata e sostenuta da documentazione conforme alle Linee Guida AGID, non come soluzione temporanea o interlocutoria. Chi suggerisce il contrario, rischia di esporre l’azienda a inadempimenti sanzionabili.
In secondo luogo, è importante chiarire il ruolo dei cosiddetti widget per l’accessibilità. Si tratta di strumenti che aggiungono funzionalità visive o di navigazione, spesso venduti come soluzioni rapide e “chiavi in mano”. Tuttavia, le WCAG 2.1 non riconoscono i widget come strumenti validi per garantire la piena conformità. Il loro utilizzo, almeno al momento di redazione di questo articolo, non sostituisce l’adeguamento del codice sorgente né la correzione delle criticità strutturali. Inoltre, il costo annuale di questi strumenti può risultare superiore, nel medio periodo, a una remediation manuale svolta da un team qualificato.
Infine, è fuorviante l’idea che, prima di avviare un procedimento sanzionatorio, l’AGID invii una comunicazione preventiva per consentire la regolarizzazione. L’adempimento dev’essere preventivo, non reattivo.
Ho voluto citare queste tre distorsioni perché sono tra le più frequenti nella prassi operativa e possono generare fraintendimenti gravi, sia sul piano tecnico sia su quello giuridico. Comprendere questi passaggi è indispensabile per evitare soluzioni inefficaci, esposizioni sanzionatorie o danni reputazionali.