Se usate spesso Google vi sarete accorti che la parte di risposte AI è sempre più dominante, sempre più completa e sempre più coinvolgente. Io stesso, quando faccio una ricerca, inizio a sostituire il click verso il sito col risultato più promettente con la semplice lettura del risultato di AI Overview, che purtroppo per gli editori diviene sempre più preciso.
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AI Overview sta uccidendo il traffico web, soffocando l’editoria
Inizialmente, forse come tutti, non mi fidavo più di tanto di quella risposta e andavo comunque a leggere il sito che appariva più adatto, ma via via col tempo ho iniziato a farlo sempre meno. I risultati di AI Overview di Google vengono implementati e approfonditi ogni giorno e appaiono quindi più che sufficienti per la maggior parte delle cose che mi serve sapere tramite il motore di ricerca.
Credo sia così per molti di noi e, essendo sia nella posizione di utente che usa il servizio sia di professionista che pubblica siti web per sé e per i clienti, vedo una grande opportunità per i navigatori e un pericolo più che imminente per gli editori e i publisher. Il fatto di inserire un box con le fonti interpellate dalla AI adiacente al risultato auto-generato non credo sia sufficiente per scongiurare il tracollo di click verso la fonte.
Il problema
Di questo sento parlare ogni giorno di più e leggo post sui social di persone che si felicitano di essere finiti fra le fonti citate accanto al risultato AI, approccio che personalmente considero come una sorta di doppia personalità: come fa un editore a essere felice che un suo contenuto utile venga fagocitato e risputato dalla AI, sottraendo traffico al proprio sito?
Secondo me, in pochissimi cliccano sul box delle sorgenti per andare ad approfondire: non sono così ben usabili, non hanno un grande invito al click e la risposta dell’intelligenza artificiale è quasi sempre già esaustiva.
Ma questa non è solo una mia sensazione, anzi è una tendenza di mercato. Google e compagnia, infatti, stanno cambiando silenziosamente le regole del gioco, e non certo a favore di noi che produciamo contenuti. Se fino a ieri ci lamentavamo degli algoritmi della SERP che decidevano chi far salire o chi far sparire nelle ricerche, oggi dobbiamo preoccuparci seriamente dell’intelligenza artificiale che azzera direttamente il bisogno di cliccare.

Gli studi
Non è un’impressione: ogni volta che compare il nuovo AI Overview di Google, il CTR organico medio precipita dal 4,1% al 2,7%. Il traffico organico cala fino al 30 per cento, come raccontano i dati di due ricerche citate da Search Engine Land. Una caduta verticale.
- Ahrefs: un calo del 34,5% nella posizione 1 CTR in presenza di panoramiche AI, sulla base di un’analisi di 300.000 parole chiave.
- Amsive: un calo medio del CTR del 15,49%, con perdite molto più consistenti in casi specifici (ad esempio, -37,04% in combinazione con i featured snippet), sulla base di un’analisi di 700.000 parole chiave.
Parole chiave non legate al marchio. Le panoramiche AI sono molto più propense ad attivarsi su query non legate al marchio, e questi termini hanno registrato i cali di CTR più consistenti:
- Amsive: calo del CTR del 19,98% sulle parole chiave non di marca.
- Ahrefs: focalizzato esclusivamente sull’intento informativo (99,2% di sovrapposizione con le panoramiche AI).

Posizionamenti più bassi = maggiori impatti sul CTR. Le panoramiche AI di Google spingono i risultati organici più in basso, riducendo al minimo la visibilità anche per le pagine con un posizionamento solido.
- Secondo Amsive, c’è stato un calo del CTR del 27,04% per le parole chiave non presenti nelle prime tre posizioni:
Le panoramiche AI avvantaggiano le query di marca. Le parole chiave di marca sono meno propense ad attivare le panoramiche AI (solo il 4,79%), ma quando lo fanno, ottengono un aumento del CTR del 18,68%. Secondo Amsive, ciò è probabilmente dovuto alla maggiore intenzione dell’utente e alla familiarità con il marchio.
Si aggiungono le analisi di Bain & Company: l’80% dei consumatori si affida ormai ai risultati forniti dall’intelligenza artificiale per almeno il 40% delle proprie ricerche, riducendo il traffico web organico fino al 25%.
Secondo la ricerca, circa il 60% delle ricerche termina senza che gli utenti clicchino su un altro sito web.
E così noi, che costruiamo valore attraverso articoli, reportage, approfondimenti, ci ritroviamo a produrre per un pubblico che ormai si ferma prima ancora di incontrarci. Ma non c’è da stupirsi, perché qualsiasi piattaforma, come dicevo in alcuni altri articoli, ha come obiettivo primario la monetizzazione: tutto gira attorno al guadagno che proviene dall’attenzione, ed è anni che ogni big tech digitale cerca di incastrarci, come utenti, dentro i propri sistemi sempre più chiusi.
Google ci dà sempre meno e prende sempre di più
Se vi ricordate come funzionava Google un tempo, la cosa è lampante: prima dava risultati che, se cliccati, ci portavano nel sito di destinazione direttamente all’URL e nella stessa finestra, oggi il click passa spesso attraverso un URL di tracciamento e si apre in una nuova finestra o scheda. Google è sempre più “zero click”, prende sempre più tutto il valore delle ricerche pur sfruttando, per rispondere, i dati dei siti che by-passa. L’AI aggrava il problema
Tutto questo perché più tempo viviamo dentro alle piattaforme e più potranno convertirci in pubblico per l’advertising.
I dati della trimestrale Google
Mentre come publisher contiamo i clic che diminuiscono, Google festeggia. Infatti Alphabet ha chiuso l’ultimo trimestre con 61,7 miliardi di dollari di ricavi pubblicitari, in crescita del 13% anno su anno, come ha avuto modo di specificare Reuters. Perché, per riassumere: meno traffico verso l’esterno significa più utenti che restano dentro Google, più tempo da monetizzare, più spazi pubblicitari da vendere. E visto che Google controlla tutta la filiera dell’advertising – dalle aste agli annunci – il gioco è sempre a senso unico: il banco vince sempre.
L’antitrust Usa dà torto a Google
In qualche modo lo ha spiegato anche il Dipartimento di Giustizia americano nei documenti dell’indagine antitrust, accolta per gran parte qualche giorno fa da una sentenza di un giudice federale.
Ora è confermato che tecniche come Project Bernanke e Reserve Price Optimization avrebbero permesso a Big G di manipolare il mercato pubblicitario a suo favore, facendo pagare di più gli inserzionisti e lasciando agli editori le briciole (riferimento atto DOJ 2023).Quali soluzioni agli abusi di Google
A mio parere è da diversi anni che questo cane che si morde la coda va avanti, quindi è divenuto un sistema troppo simbiotico per trovare una soluzione semplice: dove Google non ha accettato le regolamentazioni per ripagare gli editori dei giornali, preferendo eliminarli dalla SERP, i siti dei quotidiani hanno avuto un collasso, giusto per fare un esempio. Al contempo è difficile scontrarsi con chi detiene una vasta fetta del sistema dell’advertising che viene utilizzato su un sito. Se il flusso è: più visite faccio, più guadagno dalla pubblicità, ma la pubblicità la dà Google e le visite arrivano principalmente da Google, che potere o leva ho io per andare contro chi mi manda utenti e mi paga per essi? Nessuna. Secondo me è peggio di un monopolio: è dipendenza.
La minaccia generale dell’AI al web e agli editori
Ma le visite ai siti non sono minacciate solo da Google. La tendenza di eseguire ricerche nelle chat di intelligenza artificiale sta prendendo velocemente piede, quindi i sistemi di intelligenza artificiale si sono adeguati, rendendo disponibile l’accesso al web ai propri algoritmi e quindi ai propri utenti, perfezionandolo nel tempo.
E l’e-commerce non fa eccezione. OpenAI, per dire, si è buttata a capofitto in questo mercato integrando in ChatGPT i risultati di shopping in tempo reale, grazie a partnership con Shopify, come segnala Reuters. Un sistema di ricerca conversazionale che ci aiuta a confrontare prezzi e acquistare prodotti senza nemmeno visitare i siti dei negozi.
Un altro pezzo di traffico che se ne va, un altro colpo alla nostra indipendenza come publisher, un’altra medaglia da appendere al petto della comodità come utenti. Se poi questa tipologia di risultati della ricerca conterrà allucinazioni, non è influente per chi li usa, purtroppo.
La risposta della SEO
Ovviamente ora c’è la rincorsa del settore SEO per sfruttare al massimo questa evoluzione dell’esperienza di ricerca che si allarga a macchia d’olio fra gli utenti, che puntano alla comodità piuttosto che alla qualità, forse abituati col tempo a trovare sempre più “spam” nella SERP (Search Engine Result Pages, le pagine dei risultati dei motori di ricerca) fidandosi sempre meno dell’algoritmo. Dopo anni passati a cliccare su decine di siti e pagine di dubbia utilità nei risultati, spinte da pratiche SEO senza scrupoli, forse puntare proprio alla comodità per non perdere tempo è un riflesso spontaneo. Non smetterò mai di dire che produrre per gli umani e non per le macchine è l’unica pratica che ci permetterà di mantenere Internet (o quel poco che ne rimane) una risorsa piuttosto che una centrale di produzione di rumore.
Il settore SEO, dicevo, sta cercando in tutti i modi di spostare parte degli interventi ad ottimizzare la presenza negli algoritmi AI. Ora c’è da capire se è un riflesso per migliorare la digital presence dei clienti o un modo per non perderli, proponendo soluzioni alternative. Personalmente ritengo che fare oggi un enorme sforzo per la Search AI Optimization (o come vogliamo chiamarla) può essere tempo perso per diversi motivi. Per prima cosa il mercato dell’intelligenza artificiale è troppo veloce e quello che vale oggi, domani potrebbe non servire a nulla. In seconda battuta, nessuno, nemmeno i produttori di AI, sa esattamente come funzionano gli algoritmi, quindi si va per tentativi ed esperimenti, che a volte funzionano, a volte no e spesso ci si azzecca per qualche settimana.
Quali prospettive: soluzioni non facili
La spirale purtroppo è chiara: meno click significa meno entrate, che significa più dipendenza da piattaforme chiuse che decidono per noi come, dove e quando possiamo raggiungere il nostro pubblico. E mentre speriamo che gli interventi antitrust cambino qualcosa (dubito), dobbiamo renderci conto che i processi legali durano anni. E noi, come editori, come creatori, come publisher, come webmaster, non abbiamo tutto quel tempo. Ma non dobbiamo mai allontanarci dalla “back to home strategy”, che vale anche per il reperimento di visitatori del sito. Come abbiamo visto, più dipendiamo da piattaforme esterne, più siamo a rischio ogni minuto. Non è un’epoca facile, ma è l’unica che abbiamo e dobbiamo adeguarci, giorno dopo giorno.
Una possibile ricetta
Possiamo e dobbiamo provare a reagire, ora, oggi, adesso. Investire nella costruzione di pubblico diretto, puntare su community reali, creare contenuti che non possano essere semplicemente riassunti in una riga da un’intelligenza artificiale. Ma sempre con le antenne dritte, senza illusioni: non è facile, non è veloce, non è garantito.
Ci vogliono tempo, risorse, una strategia chiara e tanta costanza. Perché la velocità a cui si muovono Big Tech ci lascia sempre più distanti, e l’unica risposta probabilmente è la stabilità, la solidità e una presenza consolidata, etica e realistica.
I primi a soccombere, penso, saranno tutti quelli che si sono avvantaggiati con tips & trick SEO dopato, affossando il web con rumore di fondo, pur di posizionare pagine inutili e portare traffico ai propri siti e ai siti dei clienti.
L’editoria digitale, soprattutto quella web, sta cambiando e deve cambiare ancora. Esserci per dire di esserci non basta più, produrre lauti compensi in adv a Google inizia a non servire più per garantirci un flusso continuo di utenti dalla sua SERP, proporre contenuti di bassa qualità che pensano solo alla SEO è una strategia (spero) che viaggia verso il tramonto.
Come dico da diverso tempo nelle varie occasioni pubbliche, Google non è più da molto un motore di ricerca ma un motore di risposta, ora nel vero senso della parola. OpenAI costruisce il suo piccolo recinto chiuso, ogni big tech che si rispetti ha inserito un’icona a cerchietto per farci usare la sua AI. E noi rischiamo di diventare i minatori che scavano senza mai vedere l’oro. Se non troviamo il modo di riprenderci almeno una parte del controllo, se non riusciamo a possedere davvero la relazione con il nostro pubblico, non sarà più solo una crisi. Sarà la fine di un’epoca.