Il rapporto tra piattaforme digitali e autorità regolatorie dischiude una tensione strutturale tra potere economico e sovranità giuridica. In un’epoca caratterizzata dalla rapida espansione delle tecnologie digitali e dalla loro pervasività nelle dinamiche economiche globali, l’ordinamento giuridico si trova a dover confrontarsi con sfide senza precedenti.
Le piattaforme, un tempo concepite come meri strumenti di intermediazione, sono oggi diventate entità economiche di natura monopolistica, capaci di determinare l’accesso a interi segmenti di mercato e di influenzare profondamente le scelte dei consumatori e dei produttori.
In tale contesto, l’attività regolatoria si configura non più come un semplice controllo, ma come una lotta per definire i confini tra il dominio privato e l’interesse pubblico.
Indice degli argomenti
La regolamentazione piattaforme digitali tra Usa ed Europa
Il caso Apple, nel suo doppio versante statunitense ed europeo, è esemplare per comprendere l’intensità di questa tensione.
Da un lato, la risposta delle autorità giuridiche statunitensi, con la storica disputa con Epic Games, ha messo in luce la difficoltà di contenere il potere di una multinazionale che, attraverso il controllo esclusivo dell’App Store, ha imposto un modello di business intrusivo e dominante. Dall’altro lato, l’Unione Europea ha risposto con il Digital Markets Act (DMA), cercando di arginare l’egemonia di Apple e di altre piattaforme tecnologiche, obbligandole ad aprire i propri sistemi chiusi a store e metodi di pagamento alternativi. Tuttavia, nonostante queste iniziative, il comportamento di Apple mostra una continua resistenza, in cui si evidenziano forme di elusione delle normative, alimentando il conflitto tra il diritto pubblico, inteso come garanzia di concorrenza leale e trasparenza, e il potere privato, che con il suo surplus di risorse e di controllo economico cerca di preservare un sistema che ne consolidi la posizione dominante.
I limiti del diritto nell’era delle piattaforme dominanti
Questo scenario evidenzia una delle principali contraddizioni del diritto contemporaneo: la difficoltà di un intervento regolatorio che, pur trovandosi a fronteggiare poteri economici globali in continua espansione, non può limitarsi a leggi che sanciscono solo l’apertura dei mercati senza garantire, nel contempo, l’effettiva efficacia delle norme. La vicenda di Apple e del DMA dimostra come le piattaforme tecnologiche, pur sottoposte a rigide regole, continuano a esplorare spazi di elusione e a mantenere forme di influenza che mettono in discussione il principio di sovranità giuridica, rivelando la crescente necessità di sviluppare un nuovo paradigma normativo che non si limiti alla regolazione del mercato, ma che affermi il primato del diritto pubblico sulla logica del potere privato.
Il modello Apple e la costruzione di una dominanza economica
Apple ha esercitato, per oltre un decennio, un controllo capillare e pressoché incontestato sul circuito delle transazioni in-app, costruendo un modello di business che non si è limitato a semplici scambi commerciali, ma ha istituito una vera e propria struttura di dominanza economica e regolamentare.
Questo controllo, fondato su tre pilastri fondamentali, ha impresso un marchio indelebile sul mercato delle applicazioni mobili, condizionando la libertà economica e la competitività. L’obbligo di utilizzo del sistema di pagamento proprietario, l’esclusione di store alternativi e l’imposizione di commissioni che arrivano fino al 30% rappresentano non solo leve economiche, ma anche dispositivi normativi che hanno definito le regole di accesso a un mercato vitalissimo.
Obbligo di pagamento proprietario e centralizzazione del potere
Il primo di questi pilastri, l’imposizione dell’obbligo di utilizzo del sistema di pagamento proprietario, ha rappresentato il fondamento stesso del potere di intermediazione di Apple.
Questo obbligo non si è limitato a dettare una prassi operativa, ma ha configurato una strategia sistematica di centralizzazione economica, permettendo all’impresa di controllare ogni flusso di denaro che transitava attraverso il proprio ecosistema. L’assenza di alternative ha impedito agli sviluppatori di gestire autonomamente le proprie transazioni, costringendo ogni operazione a passare per il canale esclusivo dell’App Store, con l’effetto di centralizzare non solo il pagamento, ma anche i dati, le informazioni e le dinamiche di mercato. Tale struttura ha imposto una asimmetria di potere tra Apple e gli sviluppatori, che si sono visti privati della libertà di scegliere come e a quali condizioni effettuare le proprie transazioni economiche.
L’esclusione di store alternativi e il monopolio nascosto
L’esclusione di store alternativi ha incrementato ulteriormente questa centralizzazione del potere. Invece di promuovere una concorrenza sana e di permettere agli sviluppatori di scegliere la piattaforma che meglio rispondeva alle loro esigenze economiche, Apple ha relegato ogni altra forma di distribuzione al margine, creando una sorta di monopolio nascosto. Nonostante la pluralità di offerte potenzialmente esistenti sul mercato, l’App Store ha imposto un’unica via d’accesso, obbligando ogni sviluppatore a sottostare alla stessa logica economica e alle stesse commissioni. In questo modo, Apple ha stabilito un regime di concorrenza che di concorrenza aveva ben poco, limitando fortemente l’innovazione e la diversificazione nei modelli di business che gli sviluppatori avrebbero potuto esplorare in un mercato più aperto e competitivo.
Le commissioni come strumento di rendita monopolistica
La terza leva, l’imposizione di commissioni fino al 30%, è stata l’espressione più evidente della dominanza economica che Apple ha esercitato sul mercato. Tale percentuale ha permesso all’impresa di raccogliere una parte sostanziale dei ricavi generati dalle applicazioni, consolidando ulteriormente il proprio potere economico. La questione delle commissioni, lungi dall’essere una mera condizione di accesso, ha configurato una vera e propria tassa sul mercato delle app, con effetti distorsivi su diversi fronti. In primo luogo, la libertà contrattuale degli sviluppatori è stata fortemente limitata, poiché la necessità di rispettare una commissione così elevata ha ridotto la possibilità di trattare accordi commerciali più favorevoli. In secondo luogo, l’imposizione di tale tassa ha influito negativamente sull’efficienza distributiva, aumentando il costo delle applicazioni per gli utenti finali, senza che vi fosse un reale miglioramento dei servizi o della qualità delle applicazioni.
Elusione giuridica e crisi della legittimità istituzionale
In virtù di ciò, la sentenza della giudice Gonzalez Rogers del maggio 2025 segna un momento cruciale nella dialettica tra autorità giuridica e potere privato, rivelando un tentativo di elusione strutturale della decisione precedente che incide profondamente sulla legittimità delle pratiche commerciali di Apple. L’affermazione della corte, che definisce come “willful” la condotta di Apple, denuncia una consapevole strategia di aggiramento giuridico da parte della compagnia, la quale, pur formalmente aderendo agli obblighi imposti dalla sentenza del 2021, ha cercato di eludere le disposizioni con modalità che non solo ignorano l’intento normativo, ma sfidano apertamente l’autorità giudiziaria. Questo approccio deliberato ha messo in luce non soltanto una disobbedienza ai dettami giuridici, ma anche una volontaria asimmetria che amplifica l’irregolarità di un comportamento che non solo compromette la certezza del diritto, ma solleva questioni relative alla fiducia nell’operato delle corti.
Manipolazione economica e subordinazione del diritto
In particolare, il tentativo di Apple di giustificare la commissione del 27% attraverso una perizia che la corte ha definito “fabbricata” non si limita a un semplice errore tecnico, ma si trasforma in una manifestazione di insubordinazione nei confronti della giurisdizione, con effetti potenzialmente devastanti sulla stabilità del sistema giuridico. L’uso di una consulenza economica manipolata non solo evidenzia la distorsione dell’interpretazione dei fatti, ma anche il tentativo di ancorare la propria condotta a giustificazioni economiche infondate, che hanno l’obiettivo di conservare la posizione dominante nel mercato delle app. Tale atteggiamento, che i giudici hanno descritto come “potenzialmente oltraggioso”, rivela una concezione del diritto come mera formalità, rispetto alla quale il potere economico di Apple cerca di instaurare una relazione di subordinazione, in cui l’impresa stessa diventa il punto di riferimento per la definizione delle regole.
Implicazioni costituzionali della regolamentazione piattaforme digitali
Il rinvio al pubblico ministero per possibile contempt of court conferisce alla vicenda una dimensione che travalica il piano strettamente economico e tocca le fondamenta stesse della fiducia istituzionale. La possibilità che Apple possa affrontare una procedura di disprezzo della corte introduce un elemento di gravità costituzionale che non può essere sottovalutato. Un tale sviluppo, infatti, implica un giudizio non solo sul comportamento della società, ma sulla tenuta del sistema giuridico nel suo complesso, poiché coinvolge il principio stesso di sottomissione delle imprese alla legge. La gravità della condotta di Apple non risiede solo nella violazione di un ordine giuridico, ma nel tentativo di minare la stessa legittimità delle istituzioni che, in una democrazia costituzionale, sono preposte a garantire l’osservanza delle regole.
Digital Markets Act e strategie elusive delle piattaforme
Questo scenario assume una rilevanza ancora maggiore se inserito nel più ampio contesto del Digital Markets Act (DMA) europeo, il quale rappresenta un intervento radicale nell’architettura del mercato digitale, mirando a una ristrutturazione dell’ordine giuridico e commerciale. Con il DMA, l’Unione Europea ha imposto ai cosiddetti “gatekeepers” come Apple l’obbligo di aprire i propri sistemi e consentire l’ingresso di store alternativi, canali di pagamento esterni e una maggiore disintermediazione nell’accesso ai dati. Tuttavia, seppur formalmente conforme alle disposizioni, Apple ha introdotto misure tecniche e contrattuali che mirano a sterilizzare in parte l’effettività del DMA. La compagnia ha infatti messo in atto barriere tecniche, come obblighi informativi dissuasivi e barriere d’ingresso occulte, che non solo riducono l’impatto positivo della normativa, ma ostacolano in modo sostanziale la libertà di scelta per sviluppatori e consumatori.
I limiti strutturali dell’intervento europeo sul potere economico delle piattaforme digitali
Questa strategia di attenuazione della portata delle disposizioni del DMA rivela un paradosso cruciale nella risposta europea: se da un lato il DMA intende promuovere una maggiore apertura e competitività, dall’altro, l’assenza di meccanismi sanzionatori tempestivi e l’incertezza sulla giurisprudenza che regola la liceità delle restrizioni residue limitano fortemente l’efficacia della norma. La risposta europea, pur essendo un passo significativo, non ha ancora raggiunto un punto di consolidamento tale da contrastare in modo decisivo le pratiche elusive delle grandi piattaforme tecnologiche. Le carenze strutturali nella capacità di sanzionare tempestivamente le violazioni minano la credibilità stessa della normativa, mettendo in discussione il suo ruolo di reale deterrente contro la concentrazione del potere economico nelle mani di pochi attori dominanti.
Ripensare il diritto contro la concentrazione del potere digitale
La condotta di Apple rivela un aspetto cruciale del diritto contemporaneo: la sua capacità di neutralizzare il potere privato non si limita a una mera repressione dei comportamenti devianti, ma implica una ricostruzione complessa dei rapporti di potere economico. In questo contesto, l’intervento giuridico non si limita ad essere punitivo, ma assume un ruolo di contenimento del potere economico nelle sue forme più intrusive. Il diritto della piattaforma deve articolarsi come una strategia di ingegneria giuridica che decomponga le strutture di potere che, attraverso pratiche monopolistiche, limitano l’accesso ai mercati e la libertà di scelta dei soggetti più deboli. Non si tratta solo di normare comportamenti, ma di ristrutturare il campo d’azione, creando spazi di vera concorrenza e pluralismo tecnologico, dove nessuna entità, per quanto potente, possa dominare il mercato in maniera esclusiva.
Verso una nuova regolamentazione piattaforme digitali
L’azione delle corti e delle autorità amministrative, pertanto, è auspicabile che confluisca in una funzione di contenimento sistemico, volta a garantire che la concorrenza possa esprimersi in tutta la sua potenzialità. In questo modo, la difesa della libertà economica diventa il fondamento per la ricostruzione di spazi vitali di innovazione, dove i soggetti economici più deboli possano agire senza dover subire le pressioni di modelli monopolistici.
L’obiettivo finale non consiste nel ridurre la percentuale di commissione, ma nel restituire ai soggetti più vulnerabili l’autonomia decisionale all’interno di un ecosistema digitale che, per la sua stessa natura, dovrebbe incoraggiare la libertà e la competitività. In tale prospettiva, il diritto non si limita a bilanciare i rapporti di forza tra i protagonisti del mercato digitale, ma ne rielabora i fondamenti stessi, ponendo l’accento sul rafforzamento di una concorrenza autentica e su una distribuzione equa delle opportunità economiche.