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I chatbot e l’illusione della privacy: 9 modi per difendere i nostri dati



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I chatbot IA presentano rischi per la privacy. Ogni interazione lascia impronte digitali che potrebbero essere archiviate o accessibili a terzi. Strategie pratiche aiutano a limitare l’esposizione di dati personali, sanitari, finanziari e aziendali

Pubblicato il 8 mag 2025

Maurizio Carmignani

Founder & CEO – Management Consultant, Trainer & Startup Advisor



chatgpt privacy

L’uso dei chatbot è diventato quotidiano, ma spesso dimentichiamo che stiamo affidando le nostre parole a sistemi affamati di dati. Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale conversazionale ha registrato una crescita vertiginosa, passando da semplice curiosità tecnologica a strumento largamente diffuso nella vita quotidiana e nel lavoro.

Il fenomeno dei chatbot e i rischi per la privacy

Modelli come:

hanno trasformato il modo in cui scriviamo, produciamo contenuti, risolviamo problemi e, sempre più spesso, cerchiamo informazioni.

A questi si affiancano strumenti come Perplexity AI e gli AI Overview di Google, che stanno ridefinendo radicalmente il rapporto tra utenti e motori di ricerca tradizionali. Questa straordinaria evoluzione si porta dietro un cambiamento altrettanto profondo nei rischi legati alla gestione dei dati personali. Ogni input inserito in un chatbot può diventare parte di un’enorme banca dati, usata per addestrare altri modelli o esposta, in casi estremi, a fughe di dati o accessi non autorizzati. Ecco perché è essenziale porsi delle domande: cosa succede a ciò che scriviamo? Chi può leggerlo? Come possiamo proteggerci? Comprendere queste dinamiche non è un vezzo per esperti, ma una competenza fondamentale per chiunque oggi voglia utilizzare consapevolmente le tecnologie digitali.

L’illusione dell’interlocutore perfetto

Interagire con chatbot avanzati come ChatGPT può dare l’impressione di intrattenere un dialogo con un interlocutore empatico, affidabile e sempre disponibile. Il tono cordiale, le risposte fluide, la capacità di personalizzare le interazioni rafforzano un senso di familiarità che induce molti utenti ad abbassare le difese, dimenticando che non stanno parlando con una persona, ma con un sistema automatizzato.

Dietro quell’interfaccia rassicurante si nasconde però un modello matematico sofisticato, progettato per prevedere la parola successiva in una sequenza, non per custodire confidenze o offrire giudizi morali. La sua funzione è generare testo plausibile, non garantire discrezione. Ogni informazione inserita, se non gestita in ambienti protetti o versioni aziendali, può essere conservata temporaneamente, analizzata per finalità di miglioramento del servizio o, in certi casi, riesaminata da operatori umani. È fondamentale ricordare che non esiste una relazione privata con un chatbot, ma un’interazione mediata da un’infrastruttura tecnica che risponde a logiche commerciali e regolamentari ancora in evoluzione. Nel marzo 2023, un episodio particolarmente significativo ha riportato l’attenzione pubblica sui limiti strutturali della sicurezza nei sistemi di intelligenza artificiale: un bug di ChatGPT ha permesso ad alcuni utenti di visualizzare porzioni di conversazioni appartenenti ad altri, inclusi titoli di chat recenti, nomi e in alcuni casi persino informazioni parziali legate agli account. L’incidente ha sollevato interrogativi legittimi sul livello di protezione dei dati adottato da OpenAI e sulla vulnerabilità dei sistemi basati su modelli di linguaggio generativi. Sebbene la falla sia stata corretta rapidamente, l’evento ha lasciato una lezione importante: anche le tecnologie più avanzate non sono immuni da errori strutturali e l’unica vera difesa resta una gestione prudente e selettiva delle informazioni condivise.

Dati personali: un tesoro da proteggere

I dati identificativi non sono solo cifre e lettere su un documento, rappresentano la nostra identità digitale, il passaporto con cui ci muoviamo attraverso i servizi online, i social, l’e-commerce, la sanità, il lavoro. Proprio perché sono così centrali, sono anche estremamente vulnerabili. In un contesto in cui i chatbot diventano strumenti sempre più diffusi per attività quotidiane, il rischio è che la soglia dell’attenzione si abbassi.

Inserire il proprio codice fiscale in un prompt, digitare per errore l’indirizzo completo mentre si formula una domanda o inviare una foto con dati sensibili non oscurati, tutto ciò può accadere con leggerezza, ma comporta conseguenze serie. I dati raccolti potrebbero essere archiviati, analizzati, talvolta perfino condivisi con soggetti terzi, anche solo per brevi periodi, come previsto da molte privacy policy.

Anche se piattaforme come OpenAI dichiarano di adottare protocolli per ridurre l’uso e la conservazione dei dati sensibili, lo stesso team invita esplicitamente gli utenti a non inserire informazioni personali nelle conversazioni, come riportato nel Wall Street Journal. La prudenza, dunque, non è un eccesso di zelo, ma una forma elementare di autodifesa digitale.

Chatbot e informazioni sanitarie: limiti e cautele

Nel momento in cui affidiamo a un chatbot un dubbio medico o un referto, compiamo un gesto che, nella percezione comune, appare innocuo. Ma caricare un file con i risultati delle analisi del sangue, descrivere un sintomo, o cercare un’opinione su una terapia in corso significa, di fatto, esporre una parte intima e vulnerabile della nostra identità digitale. La sanità è da sempre uno degli ambiti più delicati dal punto di vista della riservatezza, tutelato da normative rigide e da un’etica consolidata.

I chatbot, invece, non sono soggetti né al segreto professionale né alle regole che disciplinano la protezione dei dati sanitari, come ad esempio il GDPR o l’HIPAA statunitense. Sono strumenti progettati per processare testo, non per custodire fragilità. Anche qualora i modelli non memorizzino direttamente i contenuti, rimane il rischio che questi vengano temporaneamente conservati per migliorare le performance del sistema, come indicato nelle policy di molte piattaforme.

In casi estremi, come già documentato, potrebbero anche essere rivisti da operatori umani per finalità di controllo. Per questo, se si ha la necessità di utilizzare l’IA per interpretare dati clinici, è fondamentale farlo adottando cautele stringenti: rimuovere ogni riferimento identificativo, usare eventualmente strumenti offerti da provider affidabili in ambito sanitario e considerare sempre che, in assenza di garanzie chiare, il miglior consiglio resta quello di rivolgersi a un professionista in carne e ossa. Cercare risposte immediate a quesiti medici è comprensibile, si può fare velocemente caricando risultati di analisi o descrivendo sintomi a un chatbot. La riservatezza però in ambito sanitario è fondamentale per prevenire discriminazioni e proteggere la dignità dell’individuo. I chatbot, per quanto avanzati, non sono soggetti alle stesse normative sulla privacy dei professionisti sanitari. Pertanto, è saggio evitare di condividere dettagli medici personali con queste piattaforme.

Chatbot e informazioni aziendali: come proteggere il capitale informativo

Nel contesto professionale, l’uso dell’intelligenza artificiale può rappresentare un prezioso alleato per la produttività, ma anche un rischio sottovalutato per la riservatezza. Condividere con un chatbot informazioni su bilanci, strategie di marketing, roadmap tecnologiche o – peggio – codice sorgente aziendale significa, di fatto, esporre elementi critici del capitale informativo di un’organizzazione a una piattaforma che non offre alcuna garanzia strutturale di segretezza. Un caso emblematico è quello di Samsung, che nel 2023 ha imposto un divieto interno all’uso di ChatGPT dopo che un dipendente ha accidentalmente condiviso materiale riservato durante una richiesta di supporto tecnico. L’episodio dimostra quanto sia facile, anche in buona fede, oltrepassare la linea tra uso personale e esposizione non autorizzata di dati sensibili. Il confine tra ciò che possiamo condividere e ciò che va protetto si assottiglia sempre di più, soprattutto in ambienti in cui la velocità dell’esecuzione prevale sul controllo dei processi. Per questo motivo, se l’uso dell’IA rientra nelle pratiche quotidiane di un’azienda, è fondamentale dotarsi di policy chiare, strumenti interni sicuri e soprattutto di una cultura digitale diffusa, capace di orientare le scelte quotidiane degli utenti. Perché la sicurezza non è solo una questione tecnica, ma anche, e soprattutto, organizzativa aziendale.

Strategie pratiche per la privacy nei chatbot

Per interagire con l’IA senza compromettere la propria privacy, proviamo a costruire un vero e proprio vademecum operativo, che tenga insieme buonsenso, strumenti utili e consapevolezza dei rischi. Ecco alcune indicazioni pratiche:

  • Usate chatbot in modalità anonima. Strumenti come Duck.ai permettono di dialogare con modelli di IA (tra cui Claude 3 Haiku e GPT-4 Turbo) senza che i dati vengano associati alla tua identità o salvati. È la forma più semplice di minimizzazione del rischio, soprattutto per chi vuole fare domande sensibili senza lasciare tracce. L’evoluzione dei modelli di ultima generazione rende ancora più cruciale l’attenzione alla privacy, poiché la loro capacità di inferenza aumenta e rende più sottile il confine tra testo anonimo e testo riconoscibile.
  • Evitate informazioni sensibili o riconducibili a voi. Non inserire mai nei prompt dati personali come nome e cognome, indirizzo di casa, codice fiscale, numeri di telefono, email aziendali, dati bancari o sanitari. Anche ciò che può sembrare innocuo, come la menzione di un cliente, di un collega o il nome di un progetto, potrebbe essere sufficiente a identificarti in modo univoco. I modelli di linguaggio non sono progettati per riconoscere e proteggere questi contenuti in automatico,  ogni informazione può potenzialmente finire nel flusso di dati usato per audit, controllo qualità o addestramento. In un ambiente dove l’identità digitale è sempre più liquida, la soglia tra anonimato e tracciabilità è sorprendentemente sottile.
  • Disattivate l’uso delle conversazioni per l’addestramento. Nelle impostazioni di strumenti come ChatGPT, Gemini e Copilot è possibile impedire che le interazioni vengano utilizzate per addestrare ulteriormente i modelli. Questa opzione non garantisce l’eliminazione totale dei dati, ma riduce sensibilmente il rischio che contenuti sensibili o confidenziali vengano riutilizzati o riesaminati. È importante verificare regolarmente la sezione dedicata alla gestione dei dati nel proprio account, dato che le impostazioni possono variare o aggiornarsi nel tempo. Su alcune piattaforme, inoltre, disattivare l’uso a fini di training potrebbe limitare l’accesso a determinate funzionalità o performance personalizzate. Anche questo aspetto va considerato nella valutazione dell’equilibrio tra privacy e usabilità.
  • Create una routine di cancellazione delle cronologie. Molti servizi di intelligenza artificiale, anche dopo l’eliminazione manuale delle conversazioni, continuano a conservare i dati per un periodo di tempo variabile, spesso fino a 30 giorni. Questo significa che ciò che pensiamo di aver cancellato potrebbe, in realtà, continuare a vivere nei server del fornitore. Impostare una routine personale per cancellare le chat subito dopo l’utilizzo non elimina del tutto il rischio, ma lo riduce sensibilmente. Alcuni strumenti, come ChatGPT, offrono anche una modalità temporanea (“Temporary Chat”) che impedisce la memorizzazione e l’uso dei dati per l’addestramento. È consigliabile verificare con regolarità le impostazioni del proprio account e, laddove possibile, attivare l’opzione di disattivazione della cronologia e dell’uso per training.
  • Non usate chatbot per contenuti proprietari. Evitate di inserire nei prompt documenti interni, codice sorgente, dati dei clienti, piani industriali o materiali coperti da accordi di riservatezza. Anche un semplice testo di bozza, se elaborato da un chatbot in ambiente non controllato, può diventare parte di dataset utilizzati per il retraining o essere visionato da revisori umani. Se lavorate con informazioni riservate o su progetti strategici, optate per versioni enterprise con garanzie contrattuali specifiche, modelli customizzati in ambienti cloud privati o soluzioni self-hosted, integratele in un framework di governance che preveda log di accesso, audit trail e controllo delle autorizzazioni. L’integrazione di modelli IA in contesti regolamentati o altamente sensibili richiede policy chiare, monitoraggio continuo e formazione specifica.
  • Abilitate l’autenticazione a due fattori (2FA) su ogni servizio collegato a chatbot o account AI. È una misura di sicurezza apparentemente elementare, ma spesso trascurata o rimandata. Attivare il 2FA significa aggiungere un secondo livello di verifica, un codice temporaneo, un’app di autenticazione, una notifica sullo smartphone, che protegge l’accesso anche in caso di furto della password. Questo è particolarmente importante se utilizzate l’AI per attività che coinvolgono dati sensibili o account collegati ad ambienti professionali. Oggi molti servizi offrono anche opzioni avanzate come l’autenticazione biometrica o le chiavi hardware (es. YubiKey), utili nei contesti aziendali o nei team che gestiscono informazioni critiche.
  • Chiedetevi sempre: dove vanno i miei dati? Prima di usare qualsiasi chatbot, consultate la privacy policy del servizio. Alcuni (come DeepSeek o altri provider asiatici) non offrono garanzie di anonimato né possibilità di opt-out. E non si tratta solo di una questione tecnica o commerciale: è anche una questione geopolitica e di diritti fondamentali. In contesti come quello cinese, ad esempio, l’intelligenza artificiale viene già impiegata per rafforzare le infrastrutture di sorveglianza e censura.
  • Formate le persone con cui lavorate. Le violazioni non avvengono solo per dolo, ma molto spesso per disattenzione, eccesso di fiducia o semplice mancanza di formazione. L’AI Act approvato dall’Unione Europea rafforza questa esigenza, prevedendo obblighi formativi specifici per chi utilizza o implementa sistemi di intelligenza artificiale, anche a tutela dei diritti fondamentali. Una cultura aziendale consapevole, aggiornata e capace di riflettere criticamente sull’uso dell’IA è oggi non solo un vantaggio competitivo, ma un prerequisito di conformità normativa.
  • Usate le AI come strumenti, non come archivi. Considerale alleate momentanee per compiti circoscritti, non depositarie della vostra conoscenza o del vostro lavoro. Evitate di trattarle come un’estensione della vostra memoria digitale: ciò che scrivete, anche se ti sembra banale o effimero, può essere analizzato, riesaminato o impiegato per scopi futuri che oggi non puoi nemmeno immaginare. Come in ogni spazio pubblico, è bene non lasciare tracce permanenti: quello che oggi vi aiuta a trovare una formula efficace o a riassumere un report, domani potrebbe far parte di un dataset anonimo usato per addestrare un nuovo modello, senza che voi ne siate a conoscenza o che abbiate voce in capitolo.

Conclusioni

L’intelligenza artificiale sta rapidamente diventando una componente strutturale del nostro quotidiano: ci supporta nel lavoro, ci assiste nelle ricerche, ci accompagna nella scrittura, nella progettazione, perfino nella creatività. Ma è proprio questa pervasività, questa fluidità invisibile con cui si inserisce nei nostri gesti digitali, a richiedere oggi uno sguardo più attento e critico. Non si tratta di negare l’utilità dello strumento. Al contrario: proprio perché l’AI ha potenzialità straordinarie, è necessario affiancare all’entusiasmo tecnologico una consapevolezza matura.

Ogni prompt che inseriamo, ogni file che carichiamo, ogni domanda che poniamo racconta qualcosa di noi, talvolta molto più di quanto vorremmo. Avere cura dei propri dati significa, oggi, esercitare una nuova forma di cittadinanza digitale. Significa scegliere con attenzione gli strumenti, porre domande sui meccanismi di funzionamento, leggere davvero le policy. Significa anche accettare che non tutto ciò che è possibile è necessariamente opportuno. Perché, se è vero che l’AI può amplificare il nostro potenziale, è altrettanto vero che può esporci a dei rischi. Proteggerci è responsabilità nostra, prima ancora che delle piattaforme.

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